Il coltivatore del Maryland
Siamo alla fine del diciassettesimo secolo. Ebenezer Cooke, Poeta Laureato, dall’Inghilterra viene spedito nel Nuovo Mondo con un doppio incarico: prendere possesso della piantagione di tabacco del padre e scrivere un grande poema epico sulla vita nelle colonie del Maryland. Inizia così un’odissea caotica nelle cui infinite trame nidificate, tra doppi e tripli scambi di identità, si susseguono naufragi e rapimenti, pirati e indiani, trafficanti d’oppio, prostitute amate, gemelle perdute, re indigeni, e un introvabile Diario Segreto contenente la storia di Pocahontas e una misteriosa ricetta afrodisiaca dagli ambigui poteri soprannaturali. E, come se non bastasse, ci sono le incessanti insidie carnali da cui il poeta cerca di difendere quel che ha di più caro: la propria verginità.
In questa imponente satira di tutti i vizi umani la tendenza di John Barth a mescolare il virtuosismo linguistico a una materia pulp è elevata a un livello quasi filosofico, e il risultato è uno dei romanzi più esilaranti della storia della letteratura. Tra echi di Rabelais, Voltaire, Boccaccio e Cervantes, con una trama avvincente sostenuta da un’impressionante conoscenza storica, poetica e filosofica – e peripezie linguistiche che solo uno scrittore di immenso talento come Luciano Bianciardi poteva restituire intatte al lettore italiano – Il coltivatore del Maryland è considerato una delle opere più importanti del secondo Novecento e una delle massime espressioni della letteratura postmoderna, il cui potere di ammaliare e strabiliare ne fanno un classico fuori dal tempo.
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