Il Padre Morto
Il Padre Morto non è vivo, ma non è nemmeno morto. È morto «solo in un certo senso», dato che si rifiuta di restare inerte e lasciarsi trascinare da una spedizione con a capo il figlio verso la destinazione più ovvia. Il suo cadavere è ingombrante: il piede misura sette metri, il corpo, cosparso di cavità-confessionali, si estende per un miglio (a volte, tuttavia, sembra solo un uomo di dimensioni umane, avvolto da un mantello dorato). Prima di morire, ha governato con mano ferma, sicura e dittatoriale. È mezzo morto e mezzo vivo, in parte biologico in parte meccanico, è saggio e vanitoso, potente e indomabile, non si rassegna al destino di carcassa e con le ultime forze cerca di liberarsi dai lacci (e di sedurre l’amante del figlio).
Il viaggio è forse il simbolico parricidio che il figlio deve compiere per emanciparsi? È una satira di stampo freudiano? E il Padre è Dio, è il linguaggio, è la cultura? Ma forse il padre – come Dio, come la scrittura – riempie tutto lo spazio e non significa altro che se stesso.
Tra dialoghi scombinati, carambole linguistiche, citazioni enciclopediche, divertissement eruditi, nonsense esilaranti e lampi di fulminante verità questo romanzo straordinario è un tuffo nell’universo di Barthelme: un imponente collage postmoderno dal quale è impossibile distogliere lo sguardo, in cui la scrittura ribolle e sembra animarsi di una vita biologica, procreando, mutando e proliferando in un’evoluzione incessante che dà l’impressione, straniante eppure incredibilmente godibile, di scrutare direttamente nel magma del subconscio collettivo.
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