
Intervista a Laura Pugno su Quando verrai (Minimum Fax) e Gilgames’ (Transeuropa) A cura di Alberto Godioli Cominciamo
da un tema su cui si è molto discusso, di questi tempi: il realismo e
le sue nuove forme. Mi pare che una costante della tua opera, finora,
sia il recupero di una realtà originaria, di una natura
rimossa: un ritorno alle origini sul piano narrativo ed espressivo, ma
soprattutto biologico. Gli archetipi offrono un paradossale contatto
con la storia, intesa in primo luogo come storia naturale, come
coscienza di specie: in questo senso, il tuo realismo consiste proprio
nella scelta di allontanarsi dalla percezione ordinaria delle cose. È
legittimo vedere, fra i moventi profondi della tua scrittura, una
reazione ai processi falsificanti messi in atto – a forza di reality – dall’immaginario contemporaneo? Penso
che sia lecito, ma più che come una caratteristica specifica della mia
scrittura, come un ambiente in cui si muove, con esiti diversi e da
posizioni diverse, tutta la scrittura contemporanea. Detto questo,
credo che non ci sia rimedio se non accettare che in parte – e non da
oggi, ma da quando esistono le comunicazioni vale a dire da secoli –
l’esperito non è sempre e necessariamente esperito col corpo. Tuttavia,
è esperito dalla mente che è parte del corpo, e attraverso i sensi,
anche se non a mezzo della presenza immediata e diretta. Non abbiamo
altra scelta, perché non esistiamo contemporaneamente in ogni luogo. O
no? Nei
tuoi testi, l’arcaico si manifesta spesso come un potere distruttivo,
destabilizzante: da qui il suo fascino terribile, o sinistro.
L’incontro fra natura e civiltà avviene in modo traumatico: tuttavia,
le tue opere più recenti suggeriscono anche una possibile
conciliazione. In fondo, Quando verrai e Gilgames’
raccontano storie simili: attraverso il contatto con la natura, il
soggetto viene educato alla visione, ad uno sguardo profondo sui
destini di chi lo circonda. Entrambe le opere finiscono proprio con
un’apertura al mondo: l’istanza naturale può trovare spazio nella
società, e può ambire a modificarla. Da questo punto di vista, Sirene sembrava attraversato da un pessimismo più radicale. È cambiato qualcosa, o non si dà una vera cesura fra i due momenti? Sirene
è un libro che si iscrive nella falsariga del genere apocalittico, ma
non è, date queste premesse, a mio avviso, un libro pessimista. Mia
sopravvive, libera, nei modi della sua specie; Samuel riesce, in un
universo dominato da morti insensate e inutili, a dare un senso alla
propria morte, che non è poco. In Quando verrai, sappiamo che
Eva, in un futuro, potrà tornare da Montserrat e imparare da lei il
mestiere della guaritrice: alla sua devastata famiglia naturale si
sostituisce una famiglia morale. Da questo punto di vista, non mi
sembra che si dia “vera cesura”. La
tua poesia, fin dagli esordi, sembra segnata da una forte vocazione
anti-lirica; in modo analogo, nei testi narrativi viene concesso uno
spazio minimo allo scavo ‘lirico’ nella psicologia dei personaggi.
Entrambe le scelte vanno intese come una critica a un’idea
cristallizzata dell’individuo? se sì, ad essere attaccato è in generale
il soggetto cartesiano, o la sua declinazione in epoca presente? In
realtà, io ho sempre avuto una fortissima inclinazione lirica, ma ho
sempre ritenuto più produttivo, invece che assecondarla, tenerla a
bada, forse inconsapevolmente per ragioni profonde di carattere prima
ancora che di poetica. Nel mio ultimo libro, La mente paesaggio,
che sta per uscire per Perrone, nella collana di Giancarlo Alfano,
“Innumeri”, l’io tenuto sotto la superficie affiora di tanto in tanto
come da fori in una lastra di ghiaccio; ma nel futuro potrebbe tornare
nelle profondità. Anche in poesia, il tuo uso del materiale mitico è di carattere anzitutto narrativo.
A questo proposito, si può parlare di un’influenza esercitata dagli
studi di Propp sulla struttura del rito iniziatico? Tornando all’ambito
letterario, il tentativo di ibridare fiaba e romanzo rimanda certo a
una tradizione illustre. Non vorrei cedere al gioco delle genealogie,
ma almeno due riferimenti – per tenersi al Novecento italiano – mi
sembrano obbligati. Il primo è Landolfi, e il suo ricorso al fantastico
come rifondazione di miti; il secondo è Sanguineti, che nel Capriccio
italiano attinge alla simbologia studiata da Jung e Propp, nell’intento
di percorrere «à rebours la filogenesi del romanzo». Esiste un
rapporto, più o meno diretto, con questi due precedenti? Conosco
l’opera di Propp, ma non parlerei di influenza, semmai, appunto, di
conoscenza. Non ci sono filiazioni, per me, con la scrittura di
Landolfi o Sanguineti, anche se la critica, naturalmente, è libera di
leggere i miei testi come vuole. Un’ultima
domanda sui modelli: passando però dalla letteratura ad un altro tuo
grande interesse, il cinema. Alcuni temi ricorrenti nella tua opera (il
bosco, l’acqua, la «zona» dell’inconscio) trovano più di un riscontro
nei film di Tarkovskij, Stalker in particolare. In un’intervista di qualche anno fa, del resto, hai eletto Tarkovskij a regista ideale per un film tratto da Sirene.
Quanto ti senti vicina a opere come Stalker, per il modo in cui viene
impostato il rapporto fra arte, scienza e natura? Cosa pensi invece
della declinazione di questo schema, in termini di estremo pessimismo,
proposta dal cinema di Lars von Trier (alludo soprattutto a Antichrist)? Nel
mio immaginario, a dire il vero, Tarkovskij e Von Trier non sono
necessariamente vicini. Oggi forse, per ragioni personali, il cinema è
una forza che agisce in me meno di qualche anno fa, anche se dipende
sempre dalle opere, da singole opere. Il primo Von Trier, quello di
Dogma, è quello che ricordo meglio, anche se il manifesto del ’95 era
una geniale mossa di marketing... Torniamo,
invece, ad un tema cui si è già accennato: l’essere umano ti interessa
meno come individuo, che come esemplare di una specie. All’egemonia
dell’antropocentrismo opponi uno sguardo ecocentrico: impiego, non a
caso, i termini usati da Wu Ming 1 nelle discusse pagine sulla New Italian Epic. Cosa pensi di questa categoria? Ti sembra adatta a descrivere gli aspetti principali della tua poetica? Non
applicherei le categorie di Wu Ming al mio lavoro perché si tratta di
percorsi autonomi, contemporanei, che come tutte le traiettorie di
questo tipo all’interno di una stessa letteratura nello stesso tempo
presentano affinità e divergenze. Quello che mi sembra sano è che
all’interno di una stessa letteratura, nello stesso tempo, convivano
molti diversi tipi di storie; che sia possibile immaginare l’intera
gamma dei possibili. Credo sia un fattore di forza, e non di debolezza,
che una letteratura possa spaziare dall’intimismo più estremo all’epica
estrema. In
questi anni hai pubblicato sia per grandi editori, sia per case
indipendenti. Credi che il mercato italiano conceda spazi sufficienti
ai giovani di valore? oppure le politiche editoriali sono troppo
schiacciate sui criteri di vendita? esistono, in questo senso, dei
margini di miglioramento – ad esempio attraverso iniziative come le
«classifiche di qualità»? Margini di miglioramento esistono
sempre, ma è indubbio che rispetto a qualche anno fa lo spazio di
respiro per i libri di qualità che “non vendono” si sia ridotto. Del
resto, anche “l’equivalente letterario del Big Mac con patatine
fritte”, raramente vende da solo: ci vuole una strategia che lo faccia
arrivare ai lettori, nell’immaginario e nella realtà. Oggi la
sfida è far arrivare al lettore i libri di qualità, e quindi ben
vengano tutte le iniziative che aiutano in questo senso. A
quali progetti stai lavorando, in questo periodo? In ambito narrativo
mediti un ritorno alla forma racconto, o continui a preferire – almeno
per il momento – la misura del romanzo breve? Per ora
continuo con il romanzo breve e non sto scrivendo racconti, anche se
non posso escludere un ritorno prima o poi a questa forma. Ho imparato
a non escludere nulla, nella scrittura: tutto prima o poi può accadere.

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