Flux
Poco prima di Natale Bo perde sua madre, investita da un autobus e dal flusso del tempo. Vent’anni dopo Brandon perde il lavoro, perché il giornale per cui scrive deve proteggere il flusso di cassa. Viene poi avvicinato da un uomo che, senza conoscerlo, gli offre un lavoro e un appartamento. La generosa azienda si chiama Flux, e giura di aver realizzato una batteria che non si scarica mai. Brandon accetta quasi distrattamente, pietrificato da una solitudine emotiva da cui riesce a liberarsi solo quando riguarda le puntate di una serie poliziesca degli anni Ottanta, l’unico ricordo felice della sua infanzia e del rapporto col padre.
Passano altri vent’anni e Blue, che può parlare solo con l’aiuto di un dispositivo elettronico, torna nella sede abbandonata di Flux per cercare risposte sul proprio passato. Magari la misteriosa compagnia non ha inventato una batteria infinita, ma di sicuro ha trovato il modo di infrangere il flusso del tempo come un specchio, nelle cui schegge, forse, c’è la madre di Bo, ancora viva.
Tra fantascienza e dramma, Jinwoo Chong scrive un’ambiziosa metafora sentimentale
sull’unidirezionalità del tempo, che può incrinare anche il più sincero dei legami, facendo sorgere il desiderio di una scappatoia fantastica, di un flusso di energia senza fine da usare per tornare in un passato ideale in cui però non c’è più nessuno, se non un implacabile silenzio.
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