approfondimenti

Walter Tevis e il potere salvifico della lettura

In questa rubrica in collaborazione con minimum lab ospitiamo sul magazine articoli di approfondimento a cura dei nostri corsisti. Valentina Muccichini ha seguito il percorso sulla traduzione: qui ci racconta Walter Tevis.

di Valentina Muccichini

È il 2467. I robot hanno assunto il controllo: stanno progressivamente sostituendo gli umani nelle funzioni di governo, applicazione della legge, pianificazione e produzione. Sulla terra restano ben pochi uomini e donne: sono lenti, taciturni, con gli occhi vuoti, vagano per le città come se fossero loro gli automi, i farmaci dominano le loro menti e i loro corpi annientandone la fertilità, e infatti non vi è alcuna traccia dei bambini (anche se nessuno sembra averlo notato). Le famiglie sono scomparse e tutto ruota attorno all’individualismo, alla privacy, all’interiorità. Sopraffatte da tanta alienazione, sono molte le persone che, in gruppi di tre, decidono di porre fine alla propria sofferenza dandosi fuoco in giro per la città.

Il lettore può immergersi nell’ atmosfera alienata e alienante di Solo il mimo canta al limitare del bosco attraverso le parole di tre voci distinte, che compongono i singoli capitoli del romanzo e che si alternano tra loro, intrecciandosi però a livello di contenuti, fino a definire la trama del romanzo stesso.

La prima è una voce che narra in terza persona e che ci offre il punto di vista di Spofforth, robot di serie Nove, la più avanzata dal punto di vista tecnologico, e unico superstite della sua “specie”. Si tratta di un robot la cui intelligenza è stata creata sulla base di quella dello scienziato che lo ha inventato. Pur avendo sembianze umane, Spofforth non è in grado di amare, perché non è stato programmato per farlo, e la sua permanenza sulla terra è caratterizzata da una profonda malinconia (dovuta forse all’incapacità di non poter somigliare del tutto agli esseri umani per via della mancanza di emozioni) e dalla voglia di morire. Nonostante il suicidio sia il suo pensiero fisso, è stato tuttavia programmato per non potersi suicidare finché non si sia estinto l’ultimo essere umano presente sulla terra.

La seconda voce è quella di Paul Bentley, che in un diario ripercorre (in prima persona) le avventure che si è trovato ad affrontare (la scoperta dell’amore, il carcere, l’evasione e la vita in una comunità, tra le altre) e il suo lungo viaggio interiore. Soprattutto racconta di come la riscoperta della lettura lo abbia aiutato a ritrovare la propria umanità e gli abbia permesso di intravedere una possibilità di salvezza, non solo individuale.

La terza voce è quella di Mary Lou, che sembra essere l’unica donna al mondo ancora in grado di ragionare e di resistere, dal momento che fin da piccola ha rifiutato le droghe che le venivano somministrate, e che per questo conserva ancora la capacità di restare lucida, nonché la propria fertilità. Grazie a Paul anche lei imparerà a leggere e scrivere, e insieme a lui svolgerà un ruolo fondamentale per le sorti dell’umanità.

Le vite di questi tre personaggi sembrano intrecciarsi, respingersi per poi riavvicinarsi, rincorrersi per poi rallentare, e infine riunirsi di nuovo, seguendo un ritmo che fa sì che il lettore resti in sospeso, in continua attesa, e che sia partecipe delle paure e delle emozioni di Paul e Mary Lou.

Tutto ciò accade perché da un certo punto in poi il lettore subisce una sorta di illuminazione, e inizia a capire che le condizioni in cui vivono i protagonisti di Solo il mimo canta al limitare del bosco potrebbero ben presto trasformarsi in una temibile realtà: dopo quasi quarant’anni dalla sua pubblicazione, questo romanzo non appare più come un’opera di fantascienza, o almeno non solo, ma sembra essersi trasformato nella descrizione di un futuro terrificante, ma al tempo stesso possibile. Proprio il suo essere plausibile lo rende una lettura a tratti soffocante: una pagina dopo l’altra ci si rende conto del fatto che il futuro distopico che funge da motore alla narrazione altro non è che uno strumento, un mezzo per mettere in guardia il lettore dagli errori commessi quotidianamente dall’essere umano.









Attraverso questo scenario tragico, Tevis sembra invitare il lettore a fare ciò che di norma proprio i libri ci spingono a fare: ragionare, riflettere, esplorare diverse possibilità, riscoprire la nostra umanità attraverso le parole e le storie che hanno fatto parte del nostro passato. L’unica possibilità di riacquistare il controllo sulle macchine, non più perfettamente funzionanti, sembra infatti consistere nel recupero da parte dell’umanità della propria capacità di pensiero, delle proprie emozioni, riacquistando così il controllo sul proprio destino. L’ambientazione non è affatto dominante, e anzi le tecnologie sembrano fare acqua da tutte le parti: sono imperfette, si avviano verso il declino, e non sono quasi più in grado di svolgere il compito per cui sono state create, ovvero mettersi al servizio dell’uomo. Le innovazioni tecnologiche sembrano quasi far parte di un set sul quale sono l’umanità e le sue infinite possibilità le vere protagoniste.

Questa è un’altra delle ragioni per cui Solo il mimo canta al limitare del bosco può essere considerato un distopico fuori dal coro: si concentra sull’uomo e sulla sua condizione, sulla sua presa di coscienza come punto di partenza verso la rinascita, anziché sulla scienza e sulla tecnologia. Qual è dunque il ruolo della lettura (e di riflesso anche quello della scrittura) in questo contesto?

In un’intervista pubblicata sulla rivista Brick, Tevis ha dichiarato che il suo romanzo nasce dalla sua esperienza diretta. Racconta infatti di aver insegnato lingua e letteratura inglese per 25 anni, e di aver riscontrato che gli americani sembrano non dedicarsi affatto alla lettura. Questo ha fatto sì che iniziassero a riempire le loro vite di surrogati più simili alla spazzatura che a forme di intrattenimento che favoriscono la riflessione e il pensiero (televisione in primis, ma soltanto perché l’intervista è stata registrata nel 1981, altrimenti gli smartphone l’avrebbero spodestata).

Nel romanzo invece la riscoperta della lettura permette a Paul Bentley prima, e a Mary Lou Borne poi, di cogliere allusioni a sentimenti che erano andati perduti. Dal momento in cui iniziano a decifrare lettere, parole, frasi e concetti che gli erano sconosciuti, i due iniziano a prestare maggiore attenzione alla realtà, e ad osservarla con occhi più attenti e critici: sarà proprio l’aver riacquistato il senso critico che li renderà i potenziali salvatori di tutto ciò che era stato dimenticato.

Proprio Paul scriverà infatti nel suo diario: “Ora che ho iniziato a tenere questo diario mi accorgo che durante il giorno comincio a fare caso alle stranezze, molto più di una volta; per poterle registrare a sera qui negli archivi, suppongo. A volte notare le cose e pensare sono causa di tensione e perplessità, e mi domando se i Progettisti non lo sapessero, quando resero praticamente impossibile per il cittadino comune l’uso di un registratore. Oppure quando hanno insegnato a tutti noi una delle prime massime che abbiamo appreso: «Nel dubbio, dimentica».”

Attraverso i film che gli insegneranno nuovamente a leggere, Paul si rende conto delle “assenze” che gravano sulla società in cui è costretto a vivere: nota che non ci sono appunto bambini, e scopre cosa sia una famiglia. Ma si spinge anche oltre: sovverte ogni regola e inizia a vivere con Mary Lou, ad amarla, contravvenendo alle leggi imposte dai robot. Quale potrebbe essere dunque il messaggio che Walter Tevis ha voluto trasmetterci attraverso questo romanzo inspiegabilmente trascurato dai più? Probabilmente che sia necessario accantonare la pigrizia, smettere di ricercare distrazioni per eliminare anche solo in parte “la sofferenza causata dai pensieri”.

Appare evidente la necessità di tornare a utilizzare la mente non come veicolo per la ricerca del piacere distaccato, ma come fonte di pensiero, come strumento che permette di rientrare in contatto con le menti di altri uomini, tornando così a essere umani. “Tutti quei libri – anche quelli noiosi e quasi incomprensibili – mi hanno fatto capire più chiaramente che cosa significa essere un umano. E ho imparato molto dal senso di soggezione che provo a volte quando mi sento in contatto con la mente di un’altra persona morta da molto tempo e so di non essere solo su questa Terra. Ci sono stati altri che hanno provato ciò che provo e, a volte, sono riusciti a dire l’indicibile.”


Valentina Muccichini, classe 1984, ha tre passioni: la traduzione, i libri e la natura. La traduzione è diventata il suo lavoro: dal 2009 lavora come traduttrice freelance dal francese e dall’inglese in ambito finanziario e legale. Dal 2019 si è rimboccata le maniche per provare a realizzare il suo sogno, la traduzione letteraria, e sta muovendo i suoi primi passi nel magico mondo dell’editoria (lo avevamo detto che i libri erano la sua seconda passione). Quando il lavoro, la lettura e sua figlia (che non a caso si chiama come la protagonista di un famoso romanzo dell’Ottocento) le lasciano del tempo libero, si dedica alla sua terza passione: camminare in mezzo alla natura, preferibilmente in montagna.


(Foto: Patrick Tomasso - Unsplash)

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