Un'educazione letteraria: i libri di Vanni Santoni
In questa rubrica i nostri autori e le nostre autrici raccontano i libri che hanno contribuito a formare il loro immaginario: in questa puntata tocca a Vanni Santoni, in libreria con La scrittura non si insegna.
Isolare solo tre libri, come mi è richiesto da questa rubrica, per inquadrare una formazione, o educazione, letteraria, è un esercizio di significativa crudeltà, nel suo imporre almeno 997 sacrifici.
Un buon metodo può essere quello di escludere i testi “preferiti” e quelli “importanti in sé”, per concentrarsi su quelli che, oltre al portato letterario, hanno avuto anche un portato emotivo quando non direttamente “biografico”: il primo libro che mi viene in mente è allora l’antologia di inglese del triennio delle superiori, che è andata purtroppo perduta e di cui non posso quindi citare il titolo; e non è importante, forse: ciò che conta è che, come tante altre antologie di inglese delle superiori, conteneva le poesie di William Blake, quelle di Samuel Taylor Coleridge, estratti di John Milton, e ancora quelle di T.S. Eliot e W.B. Yeats, fino a Sylvia Plath. Quelle poesie, sbirciate per caso durante altre lezioni, “mi parlarono con parole potenti”, per usare l’espressione dell’indiano di Dead Man (riferite proprio alla sua scoperta di Blake in una scuola dei bianchi), facendomi capire che la letteratura poteva essere qualcosa di esplosivo, cosa che il programma di italiano, diviso tra cose troppo complesse per un ragazzino, come Dante, troppo lontane dal suo sentire, come Manzoni, e tante, troppe cose noiose tout court, non mi aveva minimamente trasmesso.
Alcune di quelle influenze non si sono limitate a farmi innamorare della letteratura, ma arrivano fino a oggi: ad esempio, La stanza profonda è tutto costruito su un sottotesto che rimanda alla Terra desolata di Eliot, che è rimasto uno dei miei feticci.
In realtà, che la letteratura potesse essere esplosiva lo avevo intuito prima, ma forse essendo un esempio singolo, e non una costellazione ardente come quella Blake-Milton-Coleridge-Eliot-Yeats-Plath, non aveva attecchito fino in fondo, facendomi lo stesso effetto di una grande aria che non ti fa tuttavia pensare di abbonarti all’opera, o di un grande film che non ti fa però sognare di diventare un regista: fu quando mio padre mi diede da leggere La biblioteca di Babele di J.L. Borges, uno dei pochi oggetti testuali la cui lettura ha effetti vicini a quelli di un’esperienza psichedelica.
Non ricordo perché, pur restandone incantato, non lessi gli altri racconti dell’antologia; forse perché ero un bambino e in quel momento, tra le cose ereditate da mio padre, mi interessava più leggere la collezione integrale dei suoi “Linus” e dei suoi “Corto Maltese” (peraltro essi pure ricchi di capolavori), ma andò bene così: una dozzina di anni più tardi potei leggere per la prima volta tutto Finzioni (e L’Aleph, e Il libro di sabbia…) e capire che quel senso di meraviglia donatomi dalla Biblioteca di Babele non si doveva al fatto che avevo otto o nove anni, ma alla forza immaginifica di Borges, di cui quello resta comunque il racconto che mi è più caro.
Tutto questo avveniva quando ancora ero molto lontano dall’idea di scrivere un libro io stesso; un romanzo che, invece, ha avuto un ruolo per me decisivo quando tale fase era già in atto, è stato Requiem per un sogno di Hubert Selby Jr. La mia carriera di lettore forte, cominciando con la poesia inglese dei secoli scorsi, si era spostata prima su quella francese, e da lì sul romanzo – francese, inglese, russo – ottocentesco. Al massimo, Borges a parte, mi ero spinto fino ai modernisti. Così, quando incontrai quel libro, che forse non è nemmeno il migliore dell’autore – Ultima fermata Brooklyn mi pare decisamente superiore –, l’epifania venne dal trovare, per la prima volta, qualcuno che parlasse di cose contemporanee con una lingua contemporanea: un primo faro per provare a mettere a frutto la lezione dei giganti del romanzo sui temi e sulle ambientazioni che mi interessavano – e che non erano le corti russe o le redazioni dei giornali parigini di metà Ottocento.
In realtà, ripensandoci, c’era già stato un autore che mi aveva insegnato quell’approccio alla lingua e alla materia narrativa; forse, appartenendo lui a un’altra arte, avevo sottovalutato il suo magistero (che è linguistico non meno che grafico), e mi piace ricordarlo qui, come una quarta “wild card”: il Pazienza di Zanardi e Pompeo, capolavori massimi dei racconti e del romanzo a fumetti. Sorrido un po’, infatti, quando leggo qualcuno vedere, in questa o quella pagina degli Interessi in comune, di Muro di casse o di altri miei libri in cui ho scelto ambientazioni contemporanee e un forte uso del parlato, un’influenza di Tondelli: Tondelli l’ho letto dopo, chi mi ha insegnato quelle cose è stato Andrea Pazienza da San Severo.
(Foto: Debby Hudson - Unsplash)