Un'educazione letteraria: i libri di Eli Gottlieb
In questa rubrica i nostri autori e le nostre autrici raccontano i libri che hanno contribuito a formare il loro immaginario: il protagonista di questa puntata è Eli Gottlieb, in libreria con Il ragazzo che andò via.
Cominciamo dall’inizio. Il primo libro che ha catturato davvero la mia immaginazione è stato L’isola misteriosa di Jules Verne. Era un libro in cui c’era tutto quello che serviva a un ragazzino introverso: un piccolo gruppo di personaggi che devono affidarsi al loro ingegno per sopravvivere in una situazione drammatica, sontuose descrizioni di luoghi esotici, la forza della ragione umana come primo motore per la comprensione dell’universo, cameratismo maschile, e in più la prosa svelta, galoppante di Verne. Non avevo idea del fatto che Verne, un tizio mite, casalingo, formatosi per diventare avvocato, fosse l’incarnazione dell’imperialismo occidentale giunto allora al suo zenith. Sapevo solo che i suoi libri accendevano la mia fantasia con le parole e con le immagini, facendomi vivere, felice, nello spazio promiscuo tra le une e le altre.
Molti anni dopo sarei stato assorbito in maniera simile dai Dubliners di James Joyce. Quel libro sarebbe stato per me una specie di laboratorio della prosa in cui avrei visto la Frase Inglese dispiegarsi con una chiarezza e una musicalità davvero uniche nella letteratura anglofona. Joyce parlava con una forte cadenza irlandese ma scriveva con un nitore universale. A conquistarmi non era soltanto il meccanismo narrativo attraverso il quale il racconto consegnava al lettore il suo famoso carico di "epifania joyciana"; era anche la limpida melodia del fraseggio, che ora virava verso la cantilena irlandese ora toccava vertici di solennità, e gli stessi ritmici intervalli tra le frasi, che spesso somigliano ai versi di una poesia. Più di ogni altro libro, i Dubliners sono dentro di me, nel mio sistema nervoso, come se, lettura dopo lettura, io ne avessi assorbito il DNA narrativo.
Poco più che ventenne, ho cominciato a leggere Saul Bellow, e non ho più smesso. Anche lui era un alchimista della Frase Inglese, anche il suo stile oscillava splendidamente tra l’alto e il basso, tra la lingua triviale della strada e quella raffinata degli intellettuali. Il calore della sua immaginazione dipende certamente dal fatto di essere vissuto immerso sin dall’infanzia nel mondo yiddish, ma a ciò lui ha aggiunto una potenza intellettuale che nella letteratura americana non si vedeva dai tempi di Melville. Il suo capolavoro è Herzog, (Auden una volta gli disse che il suo unico difetto consisteva nell’«essere scritto troppo bene»), ed è il suo libro che ho letto più volte. Certo, bisogna passare sopra la misoginia di certi ritratti femminili, e il conservatorismo un po’ primitivo che lo ha invaso negli ultimi anni, ma se ci si riesce, ciò che resta è un’incredibile intelligenza creativa, che poteva far fare alla lingua inglese praticamente tutto.
Tre libri sono troppo pochi. Dovrei aggiungere i primi romanzi di Peter Handke, quelli di Max Frisch, alcuni dei romanzi del grande Robert Stone, la trilogia di Beckett, Flannery O’Connor, Sylvia Plath, la prosa e la poesia di D.H. Lawrence, un paio di romanzi di Kundera. Potrei andare avanti, ma mi fermo qui.