Un'educazione letteraria: Graziano Gala
In questa rubrica i nostri autori e le nostre autrici raccontano i libri che hanno contribuito a formare il loro immaginario: il protagonista di questa puntata è Graziano Gala, in libreria con Sangue di Giuda.
Per me i libri dell’adulto sono il corrispettivo del giocattolo affidato al bambino: credo che manipolarli, viverli, mescolarli, stracciarli – se necessario – con sottolineature e pesantezza di mano e strappi sui lembi sia, in fondo, una carnalità sacrosanta. Mi fa piangere Scola quando mette il Don Chisciotte vicino ad Anna Karenina per soccorrerla in caso di necessità: sulle mie mensole, in libreria, i testi cambiano spesso posto. Devono essere amici tra di loro, toccarsi e volersi toccare: Céline e Toma insieme scoppiano d’amore, Pierro e Loi si stringono la mano. Chi sono io per impedire le amicizie che accadono mentre non li sorveglio?
Vorrei dirne molti di titoli, ma la trinità è la regola del gioco.
Allora parto proprio con un titolo minimum fax, e non per dovere di scuderia, ma per tifo. Cosimo Argentina, Per sempre carnivori, anno del signore 2013: a questo scrittore ho dedicato un’intera tesi di laurea che porta il titolo esatto sopracitato. Argentina mi ha sbloccato: la mia giovinezza era una vergogna – smottamenti familiari, di quelli critici. Grazie a quest’autore ho capito quanto la fame, la rabbia, il dolore persino, quello irrespirabile che ti si infila nella gola e nelle narici, potesse essere urlato fuori senza quei retaggi cristiano cattolici che ne hanno azzoppati parecchi. Se ti deve morire un genitore spera sempre che sia tuo padre: secco, pulito, alle prime pagine: un mantello di nebbia svestito di netto.
Sarò monotematico, ma il secondo testo è parente del primo: ognuno ha le sue stimmate e le deve espiare. Gavino Ledda, Padre padrone, e non solo per un testo che è il corrispettivo di una progressiva dichiarazione d’indipendenza da uno stato straniero e ingombrante, quello di un padre che tutto tocca e tutto comanda (questione plurimamente indagata dai sardi, vedesi almeno Atzeni), ma anche per un’altra frase clamorosa che ad un certo punto ho deciso di ingoiare a memoria: il protagonista cosciente del rischio dell’estirparsi, dice a sé e agli altri: ma io non me ne andrò senza tentare. Questa frase dovrebbe appartenere a tutti: si può cadere in ginocchio davanti al mostro, ma non è nella caduta il disonore: è nella connivenza, nell’accettazione passiva, nella sottomissione vergognosa.
È rimasta una sedia sola e troppa compagni intorno: tra i vari Cassola, Perec e Buzzati che sono incastrati nel cuore e nelle vene, tutti preziosi e formanti per uno o tanti romanzi, la spunta un francese, Tesson, che Nelle foreste siberiane fa a pezzi tutte quelle chiacchiere di cui gli scienziati della parola si riempiono la bocca per toccare, di fondo, quell’unico strumento che davvero dovrebbe avere a che fare con una scrittura sincera e degna di nota: la nostalgia. Spogliarsi di tutto, fare un’esame di coscienza, lasciar andare tutto quello che faceva da peso: serve davvero un altro motivo?