Trilobiti: tradurre Breece D'J Pancake
Arriva in libreria Trilobiti di Breece D’J Pancake con la nuova traduzione di Cristiana Mennella, una prefazione di John Casey e una nota di Joyce Carol Oates. Vi presentiamo il libro con un intervento della traduttrice.
di Cristiana Mennella
Breece D’J Pancake era giovane e perfezionista, ossessivo e maniacale rispetto alla scrittura. A quanto si sa, per un racconto preparava quattro stesure a mano e altre dieci a macchina (siamo negli anni Settanta). Intanto insegnava inglese ai soldati in procinto di partire per il Vietnam, veniva ammesso a uno dei primissimi prestigiosi corsi di scrittura creativa, andavaa pesca, a caccia di scoiattoli e cervi, giocava a biliardo, si convertiva al cattolicesimo, collezionava armi, fossili e punte di freccia.
Da quando l’ho conosciuto tramite i suoi sorprendenti racconti – mea culpa, solo quando mi hanno chiesto di tradurli – per me è rimasto fermo per sempre nella stagione in cui qualcuno scrive solo per l’urgenza di farlo, quando ci mette tutta la passione e tutta la dedizione di cui è capace, insomma quando non è ancora un autore che dà interviste o sforna pagine su commissione. Immagino sia la condizione ideale che ogni scrittore vorrebbe mantenere, che forse rimpiange come la più fertile.
Le sue storie sono tutte ambientate nel West Virginia, una specie di terra di mezzo fra nord e sud degli Stati Uniti, isolata, dove il tempo sembra essersi fermato – anche linguisticamente. I paesaggi sono primordiali e allo stesso tempo domati con ferocia dall’uomo: miniere, industrie chimiche, coltivazioni intensive. I personaggi sono agricoltori, meccanici, minatori, contrabbandieri, camionisti, cacciatori,ritratti con precisione nel loro ambiente, nei loro gesti quotidiani, senza approssimazioni nécaricature. È il primo dato che salta gli occhi, mentre vai smontando le impalcature delle frasi: il nodo fra luogo e identità, che non si scioglie mai, persiste nel tempo e nello spazio, comprende passato e futuro.
A proposito di eternità: con Breece D’J Pancake – per forza di cose – non ho mai potuto comunicare direttamente come faccio spesso con gli autori, ma in tanti anni di traduzione non ne ho mai incontrato uno così,che mi ha assillato così tanto con la sua voce mettendomi costantemente alla prova con una specie di linguaggio da iniziati. È come se dicesse: questo è il mio mondo,questa è la mia gente, così ragionano e parlano i miei personaggi, adesso veditela tu.
Le sue pagine, che pure sono spesso composte da semplici sequenze soggetto, verbo e predicato, fanno letteralmente resistenza alla resa in italiano. Non ne vogliono proprio sapere. Pancake rivendica le proprie origini a ogni riga, a ogni paragrafo. Lui parla, racconta, sì, ma a caro prezzo, chiede di più, con una sorta di gelosia implicita verso ciò che scrive. Vuole che ti avvicini, ma intanto alza lo steccato del dialetto (e ho constatato, durante le mie ricerche, che anche i madrelinguaa volte stentano a comprenderlo). Non è facile entrare nel suo territorio.
Pancake ha creato un codice segreto, dettato da regole interne ben precise. Non ci sono scorciatoie né vie d’accesso privilegiate. Vuoi capire fino in fondo certi passaggi? Bene, per esempio va’ e studiati i paesaggi. Gli occhi, in quelle regioni, sono allenati a guardare solo in alto o in basso: dalle valli, strette e a picco, verso il cielo. E viceversa. La visione orizzontale è rara. È proprio così che mi sentirei di descrivere il mio percorso tra questi dodici racconti. Non è mai stato orizzontale, lineare, consequenziale. Solo salti, arrampicate, marce indietro, rallentamenti, accelerazioni. Le stesse strade tortuose che tanto fanno dannare Chester, uno dei suoi personaggi, patito di bolidi e rettilinei. E poi bisogna scavare e scavare nei silenzi tra le frasi, individuare le suture invisibili nella trama dei pensieri.
La lingua di queste storie somiglia al West Virginia, è impervia come gli Appalachi, costellata di crateri, il significato si smarrisce, riaffiora come un trilobite, sprofonda come nel pozzo di una miniera. Oppure si dilata, ma devi contenerlo nello spazio di poche parole, costringerlo in due battute come Colley, Reva, Skeevy, Ottie e tutti gli altri personaggi sono costretti nel loro presente.
Breece D’J Pancake è morto nel 1979, a neanche ventisette anni. I suoi racconti sono usciti postumi, nel 1983. Da allora sono passati quasi quarant’anni, ma posso dire che questo giovane autore, perfezionista, maniacale e ossessivo, mi ha dato, dall’aldilà degli scrittori, una bella e irripetibile lezione di traduzione, come non me ne capitavano da un bel pezzo.
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