Tradurre Jonathan Miles
La nota del traduttore: Assunta Martinese racconta Scarti di Jonathan Miles.
Il primo paragrafo di Scarti è lungo quattordici righe. Comincia con dei sacchi dell’immondizia (neri, ammucchiati e trapuntati di neve fresca) e finisce con un dio che smantella la Terra; in mezzo ci sono Talmadge cresciuto in pianura, ottima erba californiana, fogli di polietilene a bassa densità e vette alpine inondate dalla luce della luna.
Da lettrice, il paradiso in terra. Da traduttrice, l’esatto opposto. Soprattutto per una traduttrice esordiente.
Certo avevo la «palestra» delle revisioni. Negli ultimi anni ho trascorso molto tempo a lavorare sulle traduzioni altrui, ricavandone due insegnamenti preziosi: che bisogna far pace con un certo grado (nella migliore delle ipotesi è minimo, non è mai nullo) di approssimazione, e che a volte bisogna letteralmente sbriciolare una frase prima di poterla riassemblare in un’altra lingua; due nozioni che sembrano ovvie, fin quando non ti ritrovi paralizzata dal timore reverenziale di lettrice, e piuttosto che modificare una frase dell’autore cambieresti la grammatica italiana.
In virtù delle ore trascorse ad arrovellarmi sulle sfumature linguistiche e a combattere fieramente contro il mostro a mille teste noto come lost in translation, ero preparata a un inferno di dilemmi e indecisione, al perenne tentennamento tra i molteplici significati che può assumere la stessa frase e le molteplici rese possibili in fase di traduzione. Con Scarti, questa avversità mi è stata più o meno risparmiata.
La prosa di Miles è, in un certo senso, molto semplice, e non lascia troppo spazio alle interpretazioni; non è ambigua, né polisemica: in pratica, dice solo quello che dice. Però è anche una prosa brillante, barocca, intricata, nidificata: non si contano i precipizi di subordinate che, dopo aver attraversato la membrana (orribilmente selettiva) che delimita il confine tra la lingua di partenza e quella di arrivo subivano mutazioni inquietanti: prendevo una frase lunga, ordinata, e bella, e la trasformavo, inevitabilmente, in una mostruosità sintattica, che dava l’orticaria perfino a me che l’avevo scritta. Per capirci, con frasi così complicate c’era ben poco da scegliere, bisognava solo trovare il modo di incastrarle nei costrutti dell’italiano: spesso mi sembrava più che altro di dover risolvere un gioco di enigmistica. Tradurre, ho quindi scoperto l’estate scorsa, nel caldo torrido di Roma, è soprattutto una faccenda di disciplina e precisione.
Per raccontare Scarti partirò dalla fine di quella lunga estate, quando ho ricevuto una mail dalla redazione che chiedeva a me e a Martina Testa – che nel frattempo stava revisionando il mio lavoro – quale sarebbe stato il titolo del romanzo in italiano.
Il titolo originale del romanzo è Want Not, e fa riferimento a un adagio anglosassone che recita Waste not, want not; grosso modo: «Se non sprechi quello che hai, non dovrai poi desiderarlo». Scarti, infatti, è un libro che parla del desiderio, nelle sue molteplici declinazioni: la brama sessuale, consumistica, religiosa, artistica, etica, oppure il richiamo di un generico «di più» al quale non si è in grado di dare un nome. Quel desiderio sempre e per sempre inappagabile che può essere negato come un amore clandestino, seppellito e lasciato a raffreddarsi per diventare, negli anni, «un’affermazione e non una domanda», oppure rincorso all’infinito per ritrovarsi poi, ricchi e nauseati senza essere sazi, a dover saldare il conto di «debiti caduti da tempo in prescrizione ma che saranno riscossi lo stesso».
Scarti parla del desiderio e del suo contrario, l’ambivalente forma negativa del verbo; «non desiderare», ossia essere appagati, oppure rifiutare. Alzare le mani e dire «No, grazie». A cosa? Potenzialmente a tutto. Ogni cosa può essere dismessa: gli avanzi di magazzino di un negozio di abbigliamento, il cibo del giorno prima ancora commestibile, il proprio desiderio sessuale, un figlio (prima ancora che sia nato o dopo vent’anni), un marito diventato (letteralmente) troppo ingombrante, i ricordi tangibili di un matrimonio rivelatosi una truffa dopo un 11 settembre privato che si accompagna a quello storico, oppure, in un disperato anelito di innocenza, di autosufficienza, come Micah e Talmadge rifiutare il mondo intero, l’intero sistema: restare soli, e vivere a lume di candela degli scarti degli altri.
Così dicendo ho paura di farlo passare per un romanzo «a tema», e sarebbe fuorviante. Perché in Scarti, c’è tanta, tantissima roba. Ma tanta. C’è il Vietnam e ci sono i nazisti, c’è il baseball e il Burning Man, c’è l’India e Wall Street e i caselli autostradali e i campus universitari e le spiagge del New Jersey e un grandioso, utopistico tentativo di comunicazione con il futuro remoto: trasmettere un messaggio alle generazioni che abiteranno il pianeta fra diecimila anni. In una cornice rigida e quasi geometrica – tre storie che si sfiorano senza mai annodarsi, e per ognuna delle tre storie una triade di personaggi – Elwin, con il padre malato di Alzheimer e il goffo figlio del vicino di casa che lui ha «inavvertitamente adottato»; Sara con la figlia adolescente e l’insoddisfatto secondo marito; Talmadge, con la ragazza freegana e un vecchio compagno di bravate che irrompe nella loro strana quiete – trovano posto una miriade di altre storie che si accumulano fino a quando non si innesca un fenomeno di risonanza in virtù del quale ogni pagina comincia a strillare la stessa, armoniosa, nota d’allarme.
Eppure questo accumulo di vicende piccole e grandi non è mai una divagazione, né una deviazione: assomiglia più ad affondare il piede, di tanto in tanto, in una crepa che si apre sulla superficie di una storia, la sensazione di una profondità inattesa, la scoperta di un livello sottostante che getta nuova luce sugli atti più abietti, più disperati, più incomprensibili e li rende riconoscibilmente umani: dai sedimenti di tutte le identità sepolte (scartate) emergono i personaggi che noi – invariabilmente, a volte controvoglia – impariamo ad amare.
Ed è proprio la costanza con cui Miles presenta sempre il lato oscuro (o quello luminoso) di ogni circostanza, il riconoscere l’esistenza e la persistenza di una vita passata (degli oggetti – «di cui si riusciva quasi a sentire la storia che si portavano dentro, incorporata nella struttura cellulare» – come delle persone) che non assolve nessuno ma fornisce una parvenza di ragione, a rendere Scarti una storia potente, un romanzo memorabile, giusto, consolante in un modo sbilenco e adorabile, e a lasciarti la sensazione che tutto, ma proprio tutto, si possa infine salvare.
E quindi, da lettrice: il paradiso in terra. Da traduttrice, a conti fatti, pure.