intervista impossibile

Se si può, mr Vonnegut!

E se Kurt Vonnegut non fosse morto? L’intervista impossibile di Giordano Meacci.


di Giordano Meacci


Scopro con estremo ritardo che tutte le voci e le chiacchiere sulla morte di Vonnegut sono state, effettivamente, chiacchiere: Kurt Vonnegut jr – il genio di Indianapolis – è vivo e vegeto; abita a Castel Gandolfo: a poche centinaia di metri, in linea d’aria, dal Benedetto XVI che talvolta s’affaccia, estivo e cantilenante, al primo piano del Palazzo Pontificio del Maderno. Anzi: pare sia stato proprio Kurt Vonnegut jr – lo stesso genio di Indianapolis dell’incidentale precedente – a scrivere sul portone grigio-verde del Palazzo, in pennarello nero: «Torno subito!».

La notizia mi rallegra oltremodo (che Vonnegut sia vivo, dico: mi rallegra di più del sùbito ritorno del Dio dei Cristiani a Castel Gandolfo). Lo contatto al telefono (fisso: odia i cellulari, da sempre: Vonnegut, non il Dio dei Cristiani) grazie a un congiunto di Alberto Moravia che mi dà il suo numero di casa.
E così (attenzione: ora cambia di passo il tempo) ci siamo dati appuntamento in un angolo riposto della mia adolescenza: qui, a Frascati. Tra i tavoli in legno della fraschetta e il panorama che digrada, un salto di muro più in là, fino alle montagne e al mare, oltre Roma: a seconda di dove si guarda. Sullo stesso muricciolo dove ora sta seduto, sovrappensiero – lo vedo mentre mi avvicino, in ritardo, a uno “dei più grandi scrittori di tutti i tempi” – baffutissimo e scarmigliato, le pietruzze focaie degli occhi alle prese con un qualche dilemma fondamentale (‘che peso specifico avrà l’arancione?’ o ‘ma davvero era tutto qui?’ – con le infinite possibili intonazioni che queste traduzioni comportano) ? Proprio sullo stesso muricciolo, ormai quasi un quarto di secolo fa (più o meno al tempo della prima lettura di Un pezzo da galera), attenzione: ho dato (e ricevuto) il mio primo bacio. Molto in ritardo, evidentemente, per qualsiasi standard. Alla veneranda età di sedici anni, sei mesi e due giorni. E questo ti scaténi pure il dileggio e il ridicolo, lettore, se vuoi: dopotutto, si tratta soltanto della mia vita, che altro c’è da dire?

Lei era bellissima e aveva l’apparecchio per i denti. Il modello più raffinato, e caro: quello che lasciava solo minuscoli rettangolini di metallo incastonati dente per dente. E allora ridi pure, lettore, se in quei rettangolini ferrosi e luccicanti io rivedo la mia antica giovinezza e tu trovi solo il goffo, sbiadito tentativo di vita che in effetti era, in quel pomeriggio di maggio remoto e sudato.
E quanto poi rideresti di più, lettore, se sapessi che lei si era messa l’apparecchio per i denti fisso, a mia totale insaputa, tra il nostro primo appuntamento e il nostro primo bacio?)

Era la figlia di un fisico più o meno sodale di Rubbia e credeva, fermamente, nella proliferazione dello stabilimento di Montalto di Castro. Io invece ero figlio di un impiegato del Co.Tra.L. e confidavo nella lettera di Russell a tutti i testoni atomici. E se non è stata un’esplosione termonucleare questa, allora, con la radiazione fumosa di Roma che ci si srotola ai piedi quasi fosse un anello di fidanzamento a pressione: be’, allora ditemi voi se mai ce n’è stata una più grande, ai Castelli Romani: e qual è.

Mr Vonnegut – Kurt Vonnegut jr, il solito genio di Indianapolis – mi sorride, accogliendomi con un gesto a sedere accanto a lui, sul muricciolo.
“Mi guarda come se avesse visto il suo primo amore…”

“… Più o meno. Anche se non era proprio proprio il primo. Più l’ante-primo, si potrebbe dire…”

Se si può cominciare si deve. E cominciamo.

GM “Sinceramente sono rimasto esterrefatto e contento, della sua esistenza in vita, mr Vonnegut…”

KV “Più esterrefatto o più contento?”

GM “Diciamo un buon cinquanta e ottanta”.

KV “Essere vivo fa piacere anche a me, non c’è che dire…” Indica Roma: poi il livido brumoso che rimarca uno dei tre orizzonti che ci girano intorno. “È che alle volte, proprio, me ne dimentico. Di essere contento, dico. E questo mi spiazza…”

GM “Vuole sapere la verità?”

KV “Perché? Lei possiede la verità?” (È veramente insospettito dalla mia domanda, ndG)

GM “Diciamo una. Soggettiva. Buona per adesso, insomma… È che è la terza volta, con questa, che parlo di lei. O con lei. O con lei di lei… Ho il terrore… Forse terrore è troppo… Ho un po’ paura di ripetermi… Di tornare sempre sulle stesse cose che la riguardano… E magari sempre con le stesse parole…”

KV “La ripetizione, in sé, non è una brutta cosa. Pensi alla prima incisione dal vivo di Me, Myself & I di Billie Holiday. Per quanto uno speri, magari, in un passaggio insistito in più, in qualche parola sua di commento… L’incisione è sempre quella. Cambi tu mentre la senti. Ma l’incisione è quella. Del 1937. Strange fruit invece è del ’39. Ma tutto dipende da come ripeti e da come ti ripeti, eventualmente. No?”

GM “Mmh mmh”, annuisco evidentemente. Vonnegut mi guarda con maggiore attenzione.

KV “La trovo ingrassato, dall’ultimo necrologio”.

GM “Ho smesso di fumare, mangio molte arachidi”.

KV “Anche Posko, uno scimpanzè del bioparco di Ariccia fa così…”

GM “Mangia molte arachidi?”

KV “No. Ha smesso di fumare. Almeno mi dicono…”

GM “Ma mi parlava della ripetizione. Che poi lei ha praticato davvero di rado…”

KV “Sì ma quando l’ho fatto l’ho fatto per farla durare, la ripetizione. Come se volessi ribadire le parole. Non sottolinearle. Ribadirle e lasciarle penetrare dalle rughe. Che brutto, un pianeta senzarughe”. Si guarda intorno come se cercasse qualcosa; fissa i cassonetti dall’altra parte della strada stringendo gli occhi a fessura. “Sì. È come ripeti. Per esempio: lei sa che se si trova su un’isola deserta e vede passare un aereo deve farsi capire gridando eeeeeE-oooO-eeeE, potenziando le vocali di SOS? Ribadendole senza dire tutta la parola. È una cosa che potrebbe esserle utile, qualche volta...

GM “Ne terrò conto, Mr Vonnegut…”

KV “…? Ma cosa grida?”

GM “Non sono proprio io, è il carattere. Mi scusi…”

KV “Perché voleva vedermi?... a parte per dirmi della verità delle sue paure…”

GM “Primo. Mi faceva piacere rivederla, mr Vonnegut. Poi mi hanno chiesto di farle un’intervista. Credo sulla Letteratura, sulla Vita e su altre cose di difficile individuazione…”

KV “Guardi. Per uno dei due argomenti è facilissimo. Nasci, cresci e muori. Alle volte resti nel ricordo di chi ti ha voluto bene. Per la vita invece non so. Sono uno scrittore, non un biologo”.

GM “Eppure, mr Vonnegut…” Lui guarda di nuovo verso l’entrata della fraschetta, una qualche figura si muove tra i cassonetti e il vicolo. “Sta aspettando qualcuno, mr Vonnegut?”

KV “No. È Kilgore. Kilgore Trout. È voluto venire anche lui ma si vergogna…”

GM “Di farsi intervistare?” (Io sono evidentemente sorpreso, in verità, ndG)

KV “No, no”. Mi indica. “Si vergogna di lei”.

GM “Perché?”

KV “Per quello che ha scritto. Che Kilgore Trout è morto nel 2001”.

GM “Ma questo l’ha scritto LEI, mr Vonnegut…”.

KV “Sì. Ma lei l’ha ribadito. E Kilgore non è riuscito a sopportarlo”.

GM “… Be’. Se lo convince a venire qui posso scusarmi”.

KV “E di cosa? Kilgore vive di rimpianti. È questa la sua fragilità indistruttibile. Anche perché tutti i suoi rimpianti sono i miei”.

GM “Tutto mi immaginavo, mr Vonnegut… Ma non che lei vivesse di rimpianti…”.

KV “E infatti è Kilgore che lo fa. Vuole fare interviste alla gente, ma non ascolta…”

GM “E vivete insieme, ora?”

KV “Di rimpianti? Come si fa a vivere insieme di rimpianti?... Lo sa? Lei mi ricorda Samuel Wittfiker di Salem, nell’Oregon, che pensava di poter condividere con sua moglie Daisy la paura del buio del loro unico figlio. Charlie, si chiamava. Non Samuel Wittfiker; il loro unico figlio…”

GM “Condividere come? Non capisco…”

KV “Samuel le propose di aspettare insieme il mostro dell’armadio nella stanza del figlio, al buio. Mentre Charlie dormiva nel lettone a luci accese…”

GM “E Charlie smise di avere paura del buio?”

KV “Non proprio… Il mostro dell’armadio ha traslocato nel lettone: e ora Charlie ha paura anche della luce… Le dispiace accompagnarmi in un posto qui vicino?”

Con Kurt Vonnegut jr – seguiti dal fantasma silenzioso di Kilgore Trout – ci muoviamo a passi veloci fino alla fine del muricciolo. Poi sterziamo a sinistra, entriamo nel Bar degli Specchi. Kurt Vonnegut jr – il genio di Indianapolis più baffuto del Novecento – gonfia il petto con piacere davanti a uno degli specchi deformanti. Mi invita a seguirlo.

KV “Ecco qua. Così sembriamo Tweedledum e Tweedledee… Tutt’e due… Gli specchi deformanti sono l’infinito paradisiaco di tutte le differenze… Vede? Lei esagera: e l’uguaglianza si mostra vicina all’individualità assoluta… All’infinito… Noi siamo noi per i nostri difetti: tutto sta ad allargarli a dismisura e a guardarli pezzetto per pezzetto… Così tutto resta per quello che davvero è. E non c’è niente di puro, o di staticamente perfetto…”

GM “Mi… … Non so come replicare, sinceramente… Lei crede davvero che l’arte, gli uomini… Tendano a questo?…” (Sono realmente commosso, ndG)

KV “Un po’ sì un po’ no. In realtà volevo solo consolarla per questa grottesca pancia da arachidi che ha messo su… Andiamo…”

Uscendo di fretta – Vonnegut a passo svelto davanti a me, io dietro di lui in una bizzarra fila indiana a due – quasi mi scontro con Kilgore Trout (una vaga somiglianza con James Mason, solo leggermente appesantito dagli anni): che – attenzione – fa finta di non riconoscermi e schizza via verso la Cattedrale.

Con Vonnegut, invece – un Kurt Vonnegut jr geniale e camminatore – imbocchiamo la scesa dello struscio serale, il viale che supera la piazza, costeggia la Villa e plana verso la Stazione ferroviaria.

GM “Mi scusi, sa… Ma adesso dove stiamo andando?”

Vonnegut si ferma davanti a una panchina.

KV “Ecco”. Si siede. “Mi piace questa panchina qui. Si danno le spalle alla Stazione e intanto si vedono le persone passeggiare. Poi mi piace l’idea di avere la campagna, e i vigneti; e i boschi dei Castelli Romani, davanti a me. Anche se nascosti dalle cose”.

GM “… In effetti, mr Vonnegut… Questa sua nuova vita ai Castelli. Cosa l’ha portata dagli Stati Uniti ai boschi e alle campagne romane…” 

KV “Campagne romane sembra una cosa napoleonica”.

GM “No… Davvero. Me lo sto chiedendo… Perché la campagna, una paesino, i boschi?”

KV “Be’… Quand’ero bambino andavamo a passare l’estate nel paese di mia madre. Un piccolo borgo dell’Indiana vicino a un lago. Tutto intorno boschi e colline. M’è sempre piaciuto… Mi ricordo che – ero molto piccolo: non più di tre, quattro anni… Insomma avevo deciso che da grande avrei fatto il falegname… Presi a piantare chiodi su chiodi… Uno dopo l’altro… Sul muro di sassi di fiume della casa dei miei nonni… Ecco. Piantare quei chiodi lì… Il senso della sabbia che si sfalda, la solidità del ferro… Era una gioia che ancora non dimentico…”

GM “La gioia per il lavoro? … Per un lavoro ben fatto?...”

KV “No. È che volevo fare il falegname, come Harrison Ford”.

GM “Perché? Ha il mito di Harrison Ford?”

KV “No. Ho il mito dei falegnami. Lei ha il mito di Harrison Ford…”

GM “Ma Harrison Ford è un attore”.

KV “E allora? Mica potevo dire ‘avrei voluto fare l’attore, come Harrison Ford’, se quello che mi accomuna a lui è la falegnameria…”

GM “Mi sa che sta… barando, Mr Vonnegut… Mi sa che sta un po’ truccando l’intervista…”

KV “No. La sta truccando lei”.

Un lunghissimo, attardato tramonto si appoggia di sbieco sui bordi alti di Villa Aldobrandini. Attraversano la strada due ventenni con un nuovo nato nel passeggino. Gli occhi di Kurt Vonnegut jr – il genio di Indianapolis alle volte distratto dalla falegnameria – si scontrano con quelli del bambino. Che si muove frenetico per allentarsi le cinture.

GM “Però. Questo glielo devo proprio chiedere, mr Vonnegut… È quasi una domanda di rito…” (Vonnegut fa una leggera smorfia, ndG). “Per farla breve devo… Devo chiederle qualcosa sulla scrittura…”

KV “Be’. Se proprio deve”.

GM “Mi dia dei motivi per diventare scrittore… Qualche dritta”.

KV “Gliene do tantissime, se devo. Motivi, non ce ne sono. Ma non ce ne sono tantissimi…”

GM “Mr Vonnegut… Solo un’ultima cosa, davvero…”

KV “Se è proprio l’ultima. A casa mi aspettano…”

GM “Ecco. Non so se si ricorda… Anni fa, parecchi anni fa. Lei era in visita in una qualche Università nordamericana… Ora sono io, che non mi ricordo… A un certo punto… Se non sbaglio eravate su un ponte: lei era appoggiato al parapetto… L’ha riconosciuta un ragazzo – un uomo: avrà avuto una trentina d’anni… Che stava facendo jogging, in tuta… E vi siete messi a parlare di vita e di servizi segreti e di letteratura… Lui, l’uomo di trent’anni, era anche lui in visita… Si ricorda, mr Vonnegut? Aveva gli occhi neri neri, pieni di pagliuzze…  Ti guardava sempre come se fosse davvero attento alla vita intorno, insieme all’attenzione che aveva per te… E c’era come un piccolo fuoco triste, quando sorrideva… Rocco. Rocco Carbone…”

KV “Certo, che mi ricordo…”

GM “Ecco, mr Vonnegut… Se si può, se vuole… Casomai dovesse vederlo… Se potesse salutarmelo… Davvero. Mi farebbe molto piacere. Se può. Se vuole…”

KV “Ma certo che voglio, sì…” Vonnegut allarga le braccia, respira. “Sì, volere voglio. Non so se si può, sinceramente…”

GM “E se non può lei, mr Vonnegut!”

Vonnegut mi ride in faccia, sbuffando.

GM “Che fa, mr Vonnegut? Ride?”

KV “E che altro c’è da fare?... … O non l’ha ancora capito?”

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