Scrivanie, dove nascono i libri: Graziano Gala
Dove scrivono, quando scrivono le nostre autrici e i nostri autori? In questa puntata lo chiediamo a Graziano Gala, in libreria con Sangue di Giuda.
La mia scrivania è nascosta dietro un armadio a tre ante, in un metro di camera che nella mia testa ho sottratto al catasto. Se entri nella stanza non mi vedi: devi venire a cercarmi, e devi avere un buon motivo per farlo, perché il posto è freddo, stretto, inospitale: il mio è un ripostiglio, prima della mia scrivania ci nascondevano le scope. Mi incastro nella sedia la mattina presto: tutto è scomodo, quindi perfetto. Non si scrive bene davanti al mare: il mare è troppo bello, se uno ha un pensiero poi lo annacqua, se c’è troppa luce lo assòla, se la vista acquisisce troppe grazie in costume il protagonista ha una spinta all’erotismo che in luoghi più sinceri non avrebbe. È così che si corrompe un personaggio, che lo si fa diventare altro da quello che avrebbe voluto, perché i personaggi hanno cuore e volontà e se la si sporca li si tradisce. Io scrivo la mattina presto, alle cinque, al massimo alle sei: condizione fondamentale è che la gente dorma. Uno alle cinque ha tutti i nervi stracciati dal sonno (dormo male, faccio incubi), eppure ha ben chiara nella testa la strada, non portandosi appresso le avventure piccole o grandi del quotidiano. Prima di scrivere devo avere i denti lavati, le mani pulite, la faccia sciacquata: io sono un contenitore asettico, chi entra non può sporcarsi dei miei rimasugli. Mi piace ospitare chi viene in un luogo pulito: mi sforzo di essere il luogo pulito.
Sulla scrivania ci sono dei fogli bianchi e il computer: l’altro ha retto miracolosamente tutta la scrittura di Sangue di Giuda pure da zoppo e pure da cieco, non gli sarò mai grato abbastanza. Questo è nuovo, stiamo facendo amicizia. I fogli sono bianchi perché le righe e i quadretti possono essere come il mare (ma brutti): in qualche modo ti danno la misura, ti dicono dove devi andare, come devi fare. Il bianco del foglio è democrazia: il foglio bianco non ti giudica. A completare lo spazio c’è una lampada rossa, presa dieci anni fa coi primi soldi che potevo permettermi di spendere, sopravvissuta a sei traslochi: uno strumento affidabile. A volte penso che i meriti – se ci sono meriti – siano più suoi che miei. Anzi solo suoi. Io pigio il tasto, lei si accende, sempre, fedelissima. Una abnegazione totale.
[Io parlo con gli oggetti quando scrivo, li ringrazio, così mi tolgo da sopra la paura].
Sulla destra un portapenne, un portapenne scenico. Quelle penne non le tocco mai: sono tutti regali di persone troppo care. Non posso consumare quelle penne, altrimenti dovrei arrendermi al tempo che passa. Solo la penna di Antonio ho usato, per il contratto con minimum: l’occasione valeva la penna.
Parte integrante della scrivania è il soffitto: non quello vero, alto, quello sarebbe troppo per me. Il mio soffitto, quello un metro più in su: una bacheca di fortuna tutta insugherata per poterci crocefiggere meglio le questioni. E che questioni, tutte importanti. In alto a destra un segnalibro di Arpino: ad Arpino voglio bene perché si è inventato la pioggia in un passo bellissimo (Si vide i calzoni macchiati d’acqua e allora gli raccontai la pioggia in Sei stato felice, Giovanni) e ha raccontato ne La suora giovane un amore senza possibilità. I segnalibri per me sono stati sempre molto importanti: fino a pochi anni fa non avevo la possibilità di comprare libri, il segnalibro era una promessa d’acquisto intima, un sogno.
Oggi ho tantissimi libri, ma la casa piena di questi cartoncini verticali: mi serve a ricordare cosa non potevo fare, cosa ho desiderato tanto. Vicino ad Arpino una madonna: io non credevo alla madonna, ma credo molto a mia zia Graziella. La zia ha detto che mi ha affidato alla madonna perché non vuole che mi succeda più niente di male: allora io credo alla madonna, se lo dice la zia. Di fianco una foto con un mio carissimo amico, sotto un biglietto, scritto a mano da Roberta, la mia compagna. Un giorno le ho detto che la provincia lombarda era un posto perfetto per mandare la gente a morire: lei mi ha scritto una lista di posti in cui mi avrebbe portato per smentirmi. Ancora un segnalibro di una libreria bolognese che tanto mi piace, La confraternita dell’uva, poi due cartoline.
Anche le cartoline fanno parte di quel pezzo della mia vita in cui tutto quello che costava pochissimo poteva entrare tra le mie cose. Nella prima, tremendamente pop, comprata in Germania, Van Gogh si chiede cosa sarebbe la vita se non avessimo il coraggio di correre dei rischi. Giuda era un rischio, e non per la lingua: per i mostri che dovevo incontrare pur di parlare di Giuda. Il giorno in cui ho iniziato a scriverne ho appeso in bacheca quella cartolina, l’ho salvata dal gruppetto delle altre. Non mi interessa se la citazione sia vera, falsa, imperfetta: Sangue di Giuda viene fuori anche grazie ad una cartolina da sessanta centesimi. Dio o chi per lui benedica lo stampatore. In basso un’altra, Gli amanti di Magritte: conosco bene la storia, ma ho bisogno di vivere diversamente quel pezzo di carta. Per me quel velo, quell’impossibilità, anche quella vergogna che separa i volti è la scrittura. La scrittura è una buona alternativa sana in mezzo a tante soluzioni brutte. La scrittura va vissuta con miseria, con rabbia, con urgenza.
Io per scrivere mi alzo all’orario degli spazzini. Quando scrivo mi sento uno spazzino. Mentre scrivo sono uno spazzino.
Tolgo lo sporco, lascio il pulito, abbandono i luoghi, cerco di eliminare le tracce.
Per la rabbia, per il ripostiglio, per le scope che ci stavano prima.
Nelle puntate precedenti:
La scrivania di Corrado De Rosa
La scrivania di Antonio Iovane
La scrivania di Francesco "Kento" Carlo
La scrivania di Sandro Di Domenico
La scrivania di Gabriele Sabatini
La scrivania di Marta Zura-Puntaroni
La scrivania di Gianluca Didino
La scrivania di Vanni Santoni
La scrivania di Carola Susani
La scrivania di Danilo Soscia