Scrivanie: dove nascono i libri
Dove scrivono, quando scrivono le nostre autrici e i nostri autori? Nella prima puntata di questa nuova rubrica, Danilo Soscia ci racconta dov'è nato Gli dei notturni.
Quando termina il linciaggio delle ore
di Danilo Soscia
Io non amo gli scrittori notturni, e lo sono. Non li amo, perché la notte è un luogo faticoso, poco incline all'igiene, pieno di gruma, alterato dall'assenza della luce che è il nostro elemento naturale. Scrivere di notte significa, spesso, contraddire a forza la propria indole di esseri diurni. Non amo gli scrittori che scrivono di notte, o dicono di farlo vantandosene, perché percepisco in loro lo stesso complesso che cova in me, quella tensione al diaframma che ci fa ripiegare, lividi, inadempienti, vittime della medesima droga. Alla luce di uno stanzino, nell'angolo siderale di un tavolo di cucina o di una scrivania, mi capita di scrivere quattro o cinque notti alla settimana. Il rito che inaugura il foglio bianco è sempre lo stesso: l'esame di coscienza, un certo disgusto. Poi, qualcuno o qualcosa intorno a me principia a mordere. Mi concentro su un'immagine germinale, le parole come tenie che stanno attaccate alla corteccia del cervello, silenti per l'intero giorno, e che di notte agitano la mascella, si svegliano beate come un provetto Proust nella sua stanza foderata di sughero. E quando il loro brulicare assume il moto di un brodo denso, mi getto a peso morto tra il sovrappensiero e la carta. La penna si agita nel suo tracciato, infilza voci, storie, complessi, oppure li infila dolcemente nella sua cruna.
Scrivo dopo il tramonto, e quindi fino a tardi, perché per otto ore sono un dipendente, uno dei numerosi Monsieur Gauguin dall'esistenza duplice, e dalla testa sdoppiata. In pratica, un bugiardo, un evaso. Debbo attendere le ore notturne perché ormai non sarei più capace di pensare a una storia in pieno sole, ma debbo comunque desiderare di poterlo fare, di arrivare a lambire quel traguardo, chissà quando, e allo stesso tempo compiangermi perché non sarò in grado. E così prima di scrivere debbo offendermi mille volte per le occasioni perse, per le idee che sono apparse e poi si sono spente, per le trame compiute e poi fatte polvere dalle distrazioni. In quel momento ho necessità di provare fastidio, per tutto, per la miopia, la mancanza di fame, la nostalgia isterica per qualcosa che non è accaduto.
Sono un impiegato, e ogni giorno conto le ore che mi separano dagli schemi della sera. Se un pensiero buono mi coglie fuori orario, lo riduco in un elenco o in alcune svogliate righe sul quaderno. Liste di oggetti, di nomi, di titoli vuoti come casse esposte nella vetrina di un becchino. Li tradurrò poi, al buio.
Davanti ai simulacri sulla mia scrivania, orsi polari di resina, statuette della Passione, e una Trabant fabbricata nella DDR, sbroglio il quaderno, lo stendo, e comincio a vagare nell'antro, che è come una casa antica dove sono stato infinite volte. E un poco mi beo dell'eccitazione che provoca in me un simile stato, e di quella che susciterò negli altri, in coloro che per abitudine non concepiscono la notte come luogo di lavoro, ma solo di compiaciuto travaglio, di banale comunione con l'altrove. Che gravosa menzogna! Lavorare di notte è il sintomo di un’inettitudine socialmente ammessa. Quando le ore smettono di tirare pugni – il linciaggio delle ore, ha scritto qualcuno – e la paura cede un poco il passo alla certezza, è allora che io vengo fuori a scrivere cose del tipo: «Mangiate voi stessi, e avrete estinto per sempre la vostra fame».