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Riflessioni sulla letteratura: Jonathan Lethem e David Foster Wallace

In questa rubrica in collaborazione con minimum lab ospitiamo sul magazine articoli di approfondimento a cura dei nostri corsisti: Daniele Giovannone fa una riflessione sulla letteratura partendo da un racconto di Jonathan Lethem.

di Daniele Giovannone

Vanilla Dunk di Jonathan Lethem appartiene a quel genere di racconti che nascondono dietro una storia di finzione una riflessione sulle sorti della letteratura. È sempre interessante, per un lettore, quando un autore si lascia andare a momenti di riflessione sul senso e sulle forme dello scrivere. In alcuni casi, per farlo gli autori svestono per un istante i panni del romanziere per indossare quelli del critico, e affidano le loro riflessioni alla forma del saggio. È così che nascono dei testi cardine della riflessione sul medium letterario come The Philosophy of Composition di Edgar Allan Poe, o The Art of Fiction di Henry James, o The Literature of Exhaustion di John Barth, tanto per limitarci ai primi tre titoli che vengono in mente e all’ambito della letteratura americana.

Ma ci sono altri casi, per certi versi ancora più interessanti per il lettore comune quanto per lo studioso, in cui un autore può decidere di dare forma ai suoi dubbi sul senso della letteratura usando gli strumenti della letteratura stessa. Di dare alla sua elaborazione critica la forma del racconto. L’esempio recente più celebre probabilmente è Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso di David Foster Wallace (pubblicato nel 1989 e portato in Italia nel 2001 da minimum fax per la traduzione di Martina Testa). Verso Occidente è uno dei titoli più controversi del catalogo di Wallace e forse non il più apprezzato (Jonathan Franzen, che di Wallace era caro amico e primo lettore, gli scrisse in un lettera che leggere Verso Occidente era stato come trovarsi a una festa e scoprire che tutti gli invitati erano degli insopportabili stronzi).

Tuttavia, anche solo la natura ardita dell’operazione è sufficiente a farne una letteratura per lo meno interessante: Wallace riscrive, di fatto, un testo cardine della letteratura postmodernista come Lost in the Funhouse di John Barth (la traduzione italiana è disponibile nella raccolta La vita è un’altra storia, edita da minimum fax nel 2010), ingaggiando così un dialogo a distanza con il maestro. Attraverso questo dialogo, Wallace dà voce ad un’ansia comune alla sua generazione, quella di dover far seguito con il proprio lavoro alla rivoluzione operata dai maestri del postmodernismo letterario.

Jonathan Lethem appartiene alla stessa generazione di Wallace, e il suo racconto Vanilla Dunk esprime delle ansie non tanto dissimili da quelle di Verso Occidente, anche se Lethem sceglie per le sue riflessioni una forma meno esplicitamente meta-letteraria e più metaforica. Se il racconto di Lethem, però, è molto meno conosciuto, è per ragioni che poco hanno a che fare con la qualità letteraria.

Vanilla Dunk fa parte della prima raccolta di racconti di Jonathan Lethem, L’inferno comincia nel giardino (un altro titolo minimum fax del 2001, un’altra ottima traduzione di Martina Testa), e appartiene quindi alla fase iniziale della carriera dell’autore, quella più strettamente legata alla fantascienza (tre dei sette racconti della raccolta, compreso Vanilla Dunk, sono stati pubblicati in origine sull’Isaac Asimov's Science Fiction Magazine), e che purtroppo è stata ingiustamente oscurata dai romanzi newyorkesi degli anni 2000. E invece in questa prima fase della carriera di Lethem, e soprattutto nella sua sottovalutata produzione breve, si possono trovare alcuni dei suoi lavori più criticamente interessanti.

Inoltre, una delle ragioni per cui raramente si parla di Vanilla Dunk come di un racconto meta-letterario, è anche, paradossalmente, la sua compiutezza formale. Mentre Verso Occidente è sostanzialmente incomprensibile al di fuori del suo disegno meta-letterario, infatti, Vanilla Dunk può essere letto anche solo come una storia di sport e funziona benissimo anche così. La rivalità tra Elwood e Gornan, l’adrenalina delle partite, la suspense dei playoff, sono tutti elementi più che sufficienti a tenere avvinta l’attenzione del lettore alle venti pagine del racconto senza che questi debba per forza far caso al sotto-testo metaforico. Eppure che lo sport sia una metafora lo sottolinea con chiarezza Bo Lassner, il narratore della storia: il basket, dice, “è come se fosse stato concepito apposta per essere una metafora”.

Ma in cosa consiste di preciso la componente metaforica e, aggiungerei, meta-letteraria di Vanilla Dunk? Per capirlo è utile innanzitutto ripercorrerne brevemente la trama. Vanilla Dunk, come anticipavo poco fa, è un racconto di fantascienza. Ma quella di Lethem, soprattutto nei racconti brevi, è una fantascienza delle piccole cose: i suoi futuri fantastici sono per lo più indistinguibili dal nostro presente, se non per pochi dettagli. In Vanilla Dunk i televisori, le radio, le automobili non hanno subito particolari sviluppi tecnologici, ma la pallacanestro è diventata uno sport molto diverso da quello che conosciamo. Nel racconto, il gioco è stato rivoluzionato dall’introduzione dell’ipertuta: una speciale divisa sulla quale è possibile scaricare il repertorio stilistico di un grande giocatore del passato e che permette a chi la indossi di giocare “campionandone” le mosse. È evidente quanto bene quest’idea si presti a rappresentare metaforicamente alcune caratteristiche e concezioni del post-modernismo letterario: l’idea di un gioco che è fatto solo di riuso, che si può giocare solo ricombinando delle mosse che sono già state eseguite in passato, che “[ha] smesso di crescere e [ha] cominciato a nutrirsi di sé stesso”, riecheggia in modo chiaro l’immagine di quella letteratura dell’esaurimento per la quale tutte le storie sono già state raccontate, e che può funzionare solo ricombinandole e ripensando ai modi della loro rappresentazione.

La critica di Lethem, però, non è rivolta precisamente al post-modernismo letterario in quanto tale. Lo stesso Lethem, del resto, come molti autori della sua generazione, è figlio di quella tradizione, pur sentendosi in dovere di superarla. E anche lui, come i protagonisti del suo racconto, spessissimo gioca la sua partita letteraria campionando le mosse di alcuni grandi giocatori che lo hanno preceduto: che cos’è Concerto per archi e canguro, in fondo, se non l’incontro tra Philip Dick e il poliziesco hardboiled? O Oggetto amoroso non identificato se non l’irruzione di un elemento di fantascienza in un campus novel debitore del DeLillo di Rumore Bianco?

Le sue obiezioni sono piuttosto rivolte ad alcune degenerazioni di questo stile, che nel racconto vengono incarnate da Alan Gornan, il cui nickname dà il titolo al racconto. Gornan è un giovane e arrogante giocatore a cui, nelle prime pagine del racconto, viene assegnato tramite sorteggio il repertorio di Michael Jordan. Questa attribuzione diventa controversa per almeno due ragioni. La prima, ovviamente, è che Gornan è bianco, come il soprannome che si è scelto velenosamente sottolinea. Eppure, mi sembra che anche se il racconto si premura di introdurre fin dalle prime pagine il tema dell’appropriazione culturale, poi non riesca o non intenda farne davvero il proprio centro tematico. Questo diventa particolarmente chiaro quando Gornan, dopo un contrasto col protagonista Elwood Fossett, lo chiama “brutto negro”. Un episodio che potrebbe rappresentare il climax del racconto, se questo volesse davvero incentrarsi solo sulla questione razziale, viene invece subito archiviato e dimenticato. Nel prosieguo del racconto non se ne farà più menzione e il focus del racconto si sposterà sempre più insistentemente sulle tattiche di gioco.

Ma Gornan ha anche un’altra caratteristica che contribuisce a rendere insopportabile agli occhi di Elwood che sia lui a poter giocare con le doti di Jordan. Per Gornan la pallacanestro non ha nessun valore: per sua stessa ammissione, per lui “lo sport è solo spettacolo”. Questo si riflette innanzitutto nel suo stile di gioco, a cui è aliena la difesa (uno dei maggiori crucci di Elwood è proprio che Gornan si rifiuti di giocare in difesa, quando invece Jordan era anche uno straordinario difensore), che è composto solo di giocate a effetto pensate per stupire il pubblico e finire sui poster. Non è un caso che, nelle ultime pagine del racconto, Vanilla Dunk abbandoni la carriera agonistica per dedicarsi al cinema.

Per Elwood, che è “cresciuto in un quartieraccio di Chicago”, le cose sono molto diverse. Per lui Jordan è più di un giocatore: è un artefatto culturale, un mito, uno strumento di elevazione individuale e collettiva: “la carriera di Michael ha avuto un significato importante” dice “Andrebbe trattata con rispetto”. Una schiacciata di Jordan è una “preghiera”, sprecarla un “sacrilegio”. È per questo che il gioco di Gornan per lui è inaccettabile: perché rifiuta questa dimensione del basket, il suo valore culturale, la sua capacità di incidere sul mondo. La sua capacità di “significare” qualcosa. Lo stile di Gornan è acrobazia, avanspettacolo, intrattenimento. Usa la storia, ma non la conosce, non la rispetta. Cosa vuol dire tutto questo fuor di metafora?

Per capirlo vorrei appoggiarmi ancora una volta a David Foster Wallace e al suo bellissimo saggio E Unibus Pluram (dalla raccolta Tennis, Tv, trigonometria, tornado, pubblicata da minimumfax nel 1999). Può sembrare una forzatura usare un autore per spiegarne un altro così lontano stilisticamente. Eppure, Wallace e Lethem sono grossomodo coetanei, esordiscono a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, e pubblicano nello stesso periodo: insomma appartengono alla stessa generazione letteraria. E il problema, che sollevano entrambi, è generazionale. È il dilemma degli scrittori che sono nati dopo il post-modernismo su come rapportarsi a questa pesante eredità. Sia Wallace che Lethem descrivono una possibile strada, seguita da alcuni loro colleghi, per stigmatizzarla e distanziarsene. E infatti basta citare pochi passi della descrizione che Wallace fa di quella che chiama “letteratura d’immagine” per notare quanto bene questa si presti a essere rappresentata metaforicamente dallo stile di gioco di Gornan. Wallace parla di una letteratura affetta dalla “ansia anfetaminica di stupire il lettore”, e che in questo stupore vede il suo massimo nonché unico obiettivo. Una letteratura composta da “originali flash parodistici, destinati a catturare l’interesse per quei 45 secondi di concentrazione quasi zen”. Una prosa che, è vero, è “spiritosa, erudita [e] di altissima qualità”, i cui esempi migliori sono “divertentissimi, sconvolgenti, sofisticati”, ma che è anche irrimediabilmente “condannat[a] alla superficialità”.

Ecco, ora proviamo a ripensare per un momento allo stile di gioco di Gornan, così come ce lo descrive il racconto di Lethem. Sul fatto i suoi tiri e le sue schiacciate siano di altissimo livello tecnico c’è poco da discutere (del resto sono quelli di Michael Jordan). E forse è proprio questo il problema: la prima volta che Gornan si esibisce in un tiro particolarmente spettacolare durante una partita, Lassner parla di “una bella giocata – diciamo pure una giocata strepitosa – ma non […] strettamente necessaria, data la situazione”. Il gioco di Gornan è tecnicamente eccellente, ma è superficiale, complessivamente inutile, fatto di mosse a effetto, certo, ma privo di sostanza. Gornan, inoltre, ha anche l’ultima, e più importante, caratteristica che Wallace imputa alla letteratura d’immagine: il suo unico scopo è stupire e intrattenere, rapire il pubblico con lo spettacolo di una giocata a effetto e avvincerlo per i pochi istanti di durata di un’azione. E, nel frattempo, guadagnarsi di finire sulla copertina di una rivista, o su un poster.

Se quindi Gorgan incarna il modello negativo, viene naturale pensare che spetti a Elwood, il suo diretto rivale e di fatto il protagonista del racconto, indicare la strada da percorrere per evitare gli eccessi di quello spettacolo solipsista che è il gioco di Gorgan. Ma forse le cose sono un po’ più complicate di così. Elwood, “l’ultimo esponente della mentalità moderna in uno sport ormai completamente postmoderno”, non sembra avere molto da dire col suo gioco, oltre a opporsi a Gorgan. Il suo agonismo è mosso dalla rabbia, e fuori dalla faida con Gorgan diventa un giocatore svogliato e mediocre. Non c’è soluzione, allora?

L’alternativa proposta da Lethem è quella tra un post-modernismo pirotecnico ma afasico e un’opposizione intensa e rabbiosa ma altrettanto sterile? Forse no. Forse c’è una terza via, ed è lo stesso Elwood a suggerirla quando, dopo la partita che segna la vittoria definitiva della sua squadra sui Knicks di Vanilla Dusk, per la prima volta decide di rispondere alle domande dei cronisti sportivi. “Vuoi sapere chi è la vera star di questa squadra?” dice al giornalista che lo sta intervistando “È questo tizio qui, amico”. E indica Bo Lassner, il narratore della storia. Un personaggio che non sembra un candidato ideale al ruolo di eroe del racconto.

Lassner è uno spilungone bianco nemmeno tanto bravo a giocare che fino a quel punto del racconto (e siamo alle ultimissime pagine) ha svolto, sia sul piano diegetico che extradiegetico, soprattutto l’incarico di parlare in vece di Elwood: di raccontare la sua storia ai lettori, ma anche di parlare al posto suo con giornalisti, tifosi, e allenatori. Poco più che un gregario, insomma, nella crociata di Elwood contro Vanilla Dunk. Eppure, ed è proprio Elwood a ricordarcelo, è stato Lassner il primo a giocare con l’ipertuta disattivata. Non per ragioni ideologiche, si badi bene, ma squisitamente pratiche.

Lassner, che ha in dotazione il repertorio di un giocatore non di primissimo piano, scopre che il suo tiro in sospensione è migliore di quello che gli mettono a disposizione i campionamenti: per questo, comincia a disattivare strategicamente l’ipertuta al momento di tirare. Ma Lassner è anche quello che crede che il sistema dei campionamenti sia capace di trasmettere anche alcuni tratti caratteriali dei grandi campioni ai nuovi giocatori insieme alle doti tecniche. Che ci sia una componente umana nel nuovo sistema. Che anche il basket postmoderno sia capace di significare qualcosa. Ed è sempre Lassner, non Elwood, l’appassionato di storia del basket, quello che conosce e custodisce il passato, mentre “l’interesse di Elwood per la storia del basket non andava oltre l’esordio in campionato di Michael Jordan”. Lassner, insomma, è capace di giocare scegliendo il meglio dei due mondi, ed è capace di scegliere sempre sulla base della praticità, mai coi paraocchi dell’ideologia o della polemica.

Se cerchiamo di trascinare Lassner fuori dalla metafora e trasformarlo in uno scrittore, la figura che ne viene fuori è quella di un autore che sia capace di superare il postmodernismo senza rinnegarlo, che sia cosciente delle innovazioni stilistiche ma che sappia decidere quando e come servirsene e quando invece farne a meno. Questa breve analisi rivela la quantità di stratificazioni, di significati, di livelli di riflessione presenti nelle opere di Jonathan Lethem fin dai suoi esordi, e anche nella sua produzione breve, assolutamente da riscoprire. Gli altri racconti di L’inferno comincia nel giardino sono un ottimo esempio della letteratura teorizzata da Lethem tra le righe di Vanilla Dunk: sette storie il cui funambolismo formale è sempre finalizzato allo scopo di dare luce a un pezzetto di animo umano



Daniele Giovannone (Salerno) si occupa di letteratura angloamericana presso l'Università Orientale di Napoli, dove lavora a un progetto di ricerca su saghe familiari etniche nel XXI secolo.


(Foto: Jonathan J. Castellon - Unsplash)

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