Racconti

"Quando la vita era piena di goal" di Fabio Stassi - Parte 3

Cronistoria fantastica del IV Campeonato Mundial de Futebol, 1942

Quando la vita era piena di goal è un monologo messo in scena da Neri Marcorè nel maggio 2018.
È la cronistoria fantastica del IV Campeonato Mundial de Futebol, Patagonia, 5-19 dicembre 1942. Ed è un omaggio a Osvaldo Soriano.


di Fabio Stassi


Leggi qui la Parte 2


Ma quella finale non andò a quel modo.
Il giorno era lo stesso, il 19 dicembre del 1942, come potrei scordarmelo.
Ma non si trattò di una domenica. Era
sabato, e splendeva il sole. L’implacabile sole della Patagonia. E la posta in palio, quella domenica di sole, non fu un trofeo d’oro, che forse aveva valore soltanto per me, trattandosi dell’amore perduto della mia vita. I tedeschi e i Mapuches, quel giorno, si giocarono qualcosa d’altro. Si giocarono il confine.
Se vinciamo, dissero i tedeschi, queste terre diventeranno una provincia del Terzo Reich e voi le abbandonerete per sempre. Il capitano degli indios, che sembrava vecchio di cento anni, estrasse una mano dal tradizionale poncho di lana grezza che indossava qualunque temperatura ci fosse, e fece un cenno nell’aria, come per dire Va bene. E tutti capirono che gli auracani, come li chiamavano gli spagnoli, sarebbero stati di parola.
I Mapuches presentarono la stessa formazione che aveva battuto l’Uruguay in semifinale. Secondo uno schema che non si era mai visto fino ad allora e che registrai con questa formula: 2 1 7. Due difensori, un centrocampista e sette attaccanti.
La formazione la so ancora a memoria:
il gigante Kuyen in porta;
Lihue, la luce, e Aucaman, il condor, in difesa;
Newen, detto la Forza, al centro;
in attacco Lautaro, Antu torre di spinta, Ayun e Tahiel mezzale, Saqui, il Favorito,  sulla destra, Nahuel, che nella loro lingua significa giaguaro o selvaggio o ribelle, fate voi, centravanti, e un piccoletto che chiamavano Pichi, a sinistra.
Giocavano scalzi con delle maglie ricucite più volte. Una aveva il numero alla rovescia: il 7. Al contrario, la Germania indossava una divisa perfetta, di un bianco inamidato. Le avevano lavate per le foto ufficiali, con la coppa al cielo. Non sembravano uomini, sembravano degli esseri immortali, anche se in pantaloncini corti e con i tacchetti.

PUM! Quando William Brett Cassidy diede inizio alla partita con il solito colpo in aria, soffiava un vento leggero. Kuyen prese una manciata di terra con le mani e la tirò dietro la sua porta. Non avevo mai visto un portiere fare un gesto simile. Ma gli portò bene, perché dopo solo due minuti di gioco tolse dall’incrocio dei pali un pallone che aveva già fatto alzare le braccia di tutti i giocatori tedeschi. Scheisse, disse Gottlieb Weber, il capitano, è stata solo fortuna. L’azione seguente Kuyen si distese in un volo acrobatico sulla sinistra, esibendosi in una presa perfetta. Scheisse, commentò ancora Weber, in mezzo al campo. Kuyen, questa volta, lo sentì e anche se non sapeva il significato di quella parola, sputò nella polvere.
Per un quarto d’ora, i Mapuches non riuscirono a superare la sua metà campo. I terzini e le ali della Germania infuriavano sulle fasce; i centrocampisti portavano palla incontrastati; gli attaccanti tiravano fucilate che bruciavano le mani. Il primo a scuotersi tra gli indios fu Ayun, la mezzala. Non trovò di meglio che mettersi a cantare. Quando toccava il pallone, cantava. (Accenna una specie di filastrocca indigena senza parole). E le donne a petto nudo gli rispondevano. L’aitante difensore che lo marcava a uomo guardò verso i compagni, ma gli fu subito gridato di non badare a quelle stronzate.
Verso la metà del primo tempo, i Mapuches si erano quasi del tutto ripresi. Questa volta fu l’altro portiere salvare il risultato. Un ragazzone allampanato come un palo elettrico, ma con le mani più grandi di una padella. Anche Kuyel lo applaudì dalla sua porta tornata tranquilla.
Per un po’ non accadde nulla di rilevante. All’intervallo si era ancora fermi sullo zero a zero. Schausse, disse per la terza volta Weber, e si ritirò in fondo a parlottare con Cassidy. Vidi che Weber gli offriva da fumare, passandogli un’altra tabacchiera. Vidi anche che Cassidy l’aprì, ne estrasse qualcosa di arrotolato e se lo mise in tasca, mentre agli indios distesi sull’erba un tecnico delle telecomunicazioni urlava che erano degli insolenti figli di puttana. Intervennero gli italiani e sommersero tutti di fischi, il tecnico, l’arbitro, i giocatori con la maglia bianca. Ma tutti sapevamo che i tedeschi stavano giocando con loro come fa il gatto con il topo.

All’inizio del secondo tempo Cassidy, che fino allora non aveva quasi mai toccato la sua pistola, espulse in un colpo solo tre giocatori della squadra dei Mapuches. Non mi piace la gente che canta, disse ad Ayun. Altri due andarono fuori cinque minuti dopo, per infortunio. Newen lamentava un taglio profondo alla gamba sinistra ed Autaro uscì in lacrime per una ginocchiata alle reni. In campo, per gli indios, restarono soltanto in sei: Kuyen, Aucaman, il condor, Ayun, Saqui, Tahiel e Pichi.
Sei indios contro undici ariani. Ai Mapuches non restò altro da fare che scagliare, appena possibile, il pallone fuori. Kuyen aveva un tiro formidabile. Ogni volta oltrepassava la collinetta di lato. Ogni volta bisognava aspettare che qualcuno lo andasse a riprendere perché a Bardo del Medio, in quel Mondiale, si giocava con un pallone solo.
Weber, Ossi Baumann e Peter Klein presero allora a bestemmiare contro le Ande, contro la Patagonia e anche contro l’uomo che aveva inventato il telefono. Ma, più di tutto, ce l’avevano con quel portiere. Mentre qualcuno andava a recuperare per l’ennesima volta la palla, chiamarono Cassidy e, indicando il gigante in porta, gli dissero: lui, lasciatelo per ultimo. Lo sentirono tutti. Lo sentì anche Kuyen, che di nuovo sputò per terra.
Fuori dal campo, tutti quelli che non erano tedeschi, gli operai italiani, gli argentini, i ballerini di tango di Montevideo, i negozianti spagnoli, gli scozzesi, i pescatori cileni e persino i preti polacchi, cominciarono allora a cantare slogan antifascisti e l’attacco dell’Internazionale.
A Gottlieb Weber, il capitano, si gonfiò una grossa vena sulle tempie.
Al trentesimo del secondo tempo, Aucaman fu steso da una gomitata e il centravanti avversario gli camminò sopra; due minuti più tardi fu espulso Tahiel perché si era rifiutato di restituire il pallone; al trentatreesimo toccò ad Ayul. Perché sei stonato, disse Cassidy. Al trentacinquesimo gli orologi si bloccarono e, in un minuto che non finiva mai, uscirono per infortunio e per somma di ammonizioni Saqui, il Favorito e il piccoletto che chiamavano Pichi. Ma il gioco appena ripreso fu di nuovo interrotto: Aucaman, il condor, si era dimenticato di consegnare la fascia di capitano a Kuyen, che attendeva immobile il suo destino.
I Mapuches ora contavano su un solo giocatore: il portiere. Ma il risultato era ancora fermo sullo zero a zero.
Lo zio di Osvaldo, Casimiro, fece notare all’arbitro che quella situazione non era prevista dal regolamento. Per la rabbia, Cassidy alzò anche contro di lui la pistola che stringeva nel pugno e gli tirò tre colpi che lo ferirono a una spalla, cacciandolo dal campo.
Il gioco, a quel punto, divenne a senso unico.
Negli ultimi dieci minuti si contarono cinquantatré tiri contro la porta di Kuyel, ma nessuno a segno. Ogni volta el Misantropo, come l’aveva soprannominato una donna sconosciuta che mi sedeva accanto, parava e rilanciava. Più lontano che potesse. Oltre i limiti del campo. Verso il fiume.
Ogni volta, i suoi avversari andavano a riprendersi il pallone e la donna mi stringeva forte le mani, perché non riuscivo a smettere di tremare.

Viste le continue interruzioni, Cassidy decretò che si sarebbe giocato fino allo spuntare della Luna. Ma anche la Luna, quella notte, era amica dei Mapuches, e in particolare di Kuyel. Apparve improvvisa e sfolgorante come un lampione al centro del cielo della Patagonia. Le donne urlarono di meraviglia, e la indicarono all’arbitro, e tutti i Mapuches capirono che Kuyel era un predestinato, perché il suo nome voleva dire esattamente quello: Luna.
Ma per Cassidy, quella era un’altra magia andina. Prese la mira, e sparò anche contro di lei. Niente da fare: si sarebbe continuato fino all’alba, se necessario. Come se l’avesse colpita, la Luna sparì dietro a una nuvola nera.
Adesso si faticava pure a riconoscere il pallone, al buio. I giocatori tedeschi, ubriachi di fatica e di rabbia, inciampavano nei lacci delle proprie scarpe o uno contro l’altro. 
Ci volle un’altra mezz’ora perché uno stanchissimo Wolf Schneider, detto il Killer o l’Assassino, si producesse in una lunga azione solitaria. Tutto il pubblico presente si era radunato dietro la porta di Kuyel. Il Killer guadagnò un altro metro, poi, da distanza ravvicinata, batté il portiere avversario con un diagonale imparabile.
Diedi un bacio disperato alla donna che avevo ancora vicino. Poi tirai fuori dalle tasche il taccuino dove avevo segnato tutto quello che era accaduto in quel lungo pomeriggio e in quella lunga notte e andai a gettarlo nel fiume.
Prima di rialzarsi, Kuyel El Misantropo attese lo sparo dell’arbitro che convalidava la segnatura. Poi raccolse il pallone dal cespuglio dov’era finito, se lo mise sotto il braccio e attraversò il campo. Le donne mapuches si erano ricoperte, perché ora soffiava un vento freddo, e ostile. Quando Kuyel fu davanti a William Brett Cassidy posò il pallone per terra, il primo pallone con la valvola automatica rimbalzato su un campo del Sud America, si tolse tutta la polvere che si era depositata sulla sua spalla e disse: Merda, è stata solo sfortuna.

Sì, le storie dei portieri sono le più belle, anche Osvaldo era d’accordo con me, perché sono le storie di chi è assediato. Storie di attesa e di resistenza e, prima o poi, di capitolazione. 
L’indomani i Mapuches risalirono nelle loro montagne. Ma la linea telefonica che doveva unire la Patagonia al Reichstag di Berlino non funzionò. La telefonata tanto attesa che tutti aspettavano, dal Primo Cancelliere al capo della Propaganda al Ministro della Guerra, andò a puttane. Immaginando come sarebbe andata a finire, nascosto nelle tenebre, avevo tagliato i cavi. La Coppa l’avrei rubata più tardi.
Così il quarto Mondiale del Mondo di Calcio non poté essere omologato, e presto altre e più urgenti questioni ne cancellarono anche il ricordo. L’ombra della svastica si perse sotto gli oceani. E il Fürher se ne restò con una cornetta vuota in mano, nera e fiammante, ma più silenziosa di una conchiglia. Fu l’inizio della disfatta. Negli stessi giorni di quel dicembre le forze dell’Asse crollavano a Stalingrado. 

Consuelo, quella notte, volteggiò sopra di me.
Sentivo i suoi capelli sfiorarmi la pelle, riconoscevo la forma esatta dei seni stretti dalla veste, le larghe ali dorate, mi stordivo dell’odore che proveniva dal suo corpo speziato… Quante lenzuola avevo sgualcito, nella sua attesa, quanti abbracci andati a vuoto.
Non mi restava che impadronirmene, e scappare con lei.
Ma quando mi introdussi nella baracca dove l’avevano custodita, per tutto il torneo, la Diosa non c’era più. Gli italiani erano stati più veloci di me: l’avevano portata via la sera prima della finale e affidata a un temerario pilota che l’avrebbe riportata a Roma, volando fino a Buenos Aires e imbarcandola da lì su un piroscafo.
Era sempre stato così, con lei. Ogni volta, al culmine del desiderio, non ero mai riuscito a raggiungerla. Come quando credi d’avere in pugno una farfalla e invece è stato proprio il tuo movimento a fartela fuggire.
Da allora, ho cercato Consuelo in ogni donna che mi ha nascosto, in ogni continente che mi ha abitato, in ogni parola che ho scritto e taciuto.
Sapevo che quella Coppa alla fine l’avrebbe vinta il Brasile e che un giorno, in un futuro remoto, l’avrei riportata in Patagonia, in direzione del Polo Sur, per restituirla al Popolo della Terra, con tutte le sue speranze perdute. Ma questa è un’altra storia.

Ci sembra che il tempo passi, ma è tutto qui, dove è sempre stato, tra i nostri piedi. Insieme all’ingiustizia, che cambia di nome, ma è sempre la stessa merda, in ogni tempo e luogo. 
Vedete, insieme ai ricordi, ho visto sparire anche molte persone e molte parole. I bambini ora imparano a leggere su alfabetieri muti e nessuno gli insegna più il significato di certe utopie. Ma come diceva Osvaldo, una società senza utopie è una società morta. Ed è questo che dovremmo tentare di fare: toglierle dalle teche e ridargli il significato che avevano perduto.
Così, quando mi assale l’umor nero, mi ripeto la filastrocca di quella squadra formidabile che vidi giocare e perdere nel 1942:
Kuyen Lihue Aucaman Newen Lautaro Antu Ayun Tahiel Saqui Nahuel Pichi.
Il calcio è come l’amore. Se lo hai provato per davvero, dopo nessuno potrà spacciarti una riproduzione scialba e vicaria che i giovani si ostinano a chiamare allo stesso modo.
Al calcio, e all’amore, allora!
Brindiamo, Osvaldo, ora che anche la nostra partita volge alla fine…

Al calcio e all’amore.
E ai Mapuches d’America,
a quando la vita era piena di goals,
e si poteva giocarsela finché si aveva fiato,
e il futebol aveva le ali.
A quando tra gli uomini c’era un rispetto, qualunque fosse il loro stato.
e i numeri in campo andavano dall’1 all’11,
e i libri ti lasciavano addosso una cicatrice.
A chi scriveva Abaixo a dictadura militar e Viva a democracia.
E ai mimi che sono finiti male,
agli acrobati che hanno sbagliato un esercizio, a cinque metri da terra,
alle ballerine dalla bocca di rosa,
agli attori che sono stati dimenticati,
alle cantanti che hanno perso la voce,
agli scrittori falliti.
A chi vive in levare,
e a chi, in fondo, ci ha insegnato il mestiere.

Perché tutto svanisce, Osvaldo, ma non i desideri che abbiamo avuto.



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