"Quando la vita era piena di goal" di Fabio Stassi - Parte 2
Cronistoria fantastica del IV Campeonato Mundial de Futebol, 1942
Quando la vita era piena di goal è un monologo messo in scena da Neri Marcorè nel maggio 2018.
È la cronistoria fantastica del IV Campeonato Mundial de Futebol, Patagonia, 5-19 dicembre 1942.
di Fabio Stassi
Appena si delineò con chiarezza la futura dinamica degli avvenimenti, risfoderai il mio poncho da gaucho e corsi alla redazione del Littoriale dove conservavo ancora qualche conoscenza. Otto anni prima, ai mondiali di Roma, mi ero fatto accreditare come un giovane giornalista sudamericano. Nonostante fossi stato licenziato in tronco, all'epoca, piangendo e strepitando dio sa come li convinsi a darmi un’altra possibilità. Giuravo che il mio stile era maturato, nel frattempo. E che non mi potevano negare l’occasione della mia carriera. Conoscevo lo spagnolo, il portoghese, l’italiano, il tedesco e un po’ di francese – solo l’inglese non voleva entrarmi in testa, maledizione. Nessuno più di me avrebbe potuto documentare quella competizione folle, all’altro capo del pianeta. Non avevano nulla da perdere, bastava che mi rilasciassero un tesserino internazionale e mi facessero partire insieme alla Coppa. Il governo italiano si era impegnato a non spedire nessun giocatore ufficiale in Patagonia, ma sui giornalisti non s’era detto neppure una parola. Stremati, pur di liberarsi di me, mi diedero un paio di occhiali con le lenti brunite, un cappellaccio e una giacca dell’aeronautica e mi spinsero sull’aereo della Federazione in partenza per le Americhe.
Di quel viaggio non ho voglia di parlare. Cinque o sei scali, una turbolenza continua. Ma ero nella stessa cabina con la Diosa, a migliaia di metri di altezza. Sapevo che non avrei avuto un momento migliore per rubarla. L’equipaggio era soltanto di due persone e non mi sarebbe stato difficile dirottare l’aereo. Ma poiché nessun altro cronista era stato così folle da imbarcarsi in quell’avventura, non resistetti all’idea di avere l’esclusiva. Così decisi di aspettare: sarei passato all’azione subito dopo la finale, quando i tecnici e gli ingegneri tedeschi, che quella coppa l’avevano già in tasca, si fossero concentrati sulla loro fatale telefonata.
Ma quello che né i tedeschi, né gli altri, avevano previsto fu la domanda di iscrizione al torneo che inoltrarono i Guaraníes e i Mapuches. Si trattava di popolazioni indigene, che non avevano mai giocato a futbol e che non avevano ancora capito esattamente il senso e la necessità di tutto quel correre a gambe nude dietro una palla rotonda di cuoio. L’idea di una Coppa in palio, però, piaceva anche a loro. In fondo, furono gli unici che intuirono la verità, e cioè che la Diosa avesse dei poteri magici e fosse una donna in carne e ossa. Se era così importante, e desiderata, doveva possedere i segreti dei bianchi che li avevano decimati nelle guerre di conquista e bisognava assolutamente impossessarsene. Il fascino di Consuelo aveva sedotto anche loro.
Fu così che dopo vari giorni di voli, atterraggi e decolli approdai nella Terra degli Uomini dai Grandi Piedi scombussolato, pieno di polvere e con lo stomaco sottosopra. Non vedevo l’ora di scrivere il primo articolo. Ma una violenta bufera, al mio arrivo a Bardo del Medio, interruppe tutti i contatti possibili, il telegrafo, la posta. Così non potei dettare a nessuno i miei pezzi, e nessuno poté mai leggerli. Di telefono neppure a parlarne. Che poi, pure a questa storia che fosse possibile che la propria voce attraversasse gli oceani e saltasse fuori da un tubo ricurvo con una cornetta in cima, a migliaia di chilometri di distanza, chi volete che laggiù poteva crederci.
A dare il primo tocco inaugurale alla quarta edizione del Campeonato fu un genovese di nome Mancini, uno che si era allenato da ragazzo in un collegio di preti e che poi era diventato anarchico. A fronteggiare i campioni in carica era stata sorteggiata l’agguerrita squadra dei guaraníes, che per l’occasione difendeva i colori del Regno di Patagonia.
L’Italia era una squadra rocciosa e muscolare che non fece rimpiangere la versione ufficiale. Vinse 4 a 1, ma con un rigore dubbio che provocò due feriti tra gli avversari. Per far accettare la decisione, l’arbitro William Brett Cassidy, il figlio del leggendario bandito, dovette infatti assestare due colpi con il calcio della sua Colt ai difensori indigeni. Ma le contestazioni continuarono anche dopo il fischio finale e per tutta la notte ci furono incidenti all'arma bianca per le strade e per qualche giorno si dovettero sospendere i lavori della diga.
Quell’arbitro, William Brett Cassidy, avreste dovuto vederlo. I baffoni spioventi, il cappello a tesa tonda, le spalle larghe, gli occhi assassini. Il padre lo avevano fatto secco nell’America del Sud, in Bolivia. Avevano persino scomodato la cavalleria per inseguire lui, il suo compare Sundance Kid e una donna di nome Edna, amante di entrambi, dopo che i tre aveva rapinato una compagnia mineraria locale. Si disse che uno dei due ferito a morte uccise l’altro, prima di suicidarsi. Ma per molti fu solo una messa in scena. Ne parlò anche Chatwin, nel suo libro In Patagonia. Comunque sia andata, un figlio gli era sopravvissuto, perché in quel caldo dicembre del 1942 lo vidi all'opera come l’arbitro più temibile di tutti i tempi, l’unico che al posto dei cartellini di espulsione usava la polvere da sparo. Gli chiesi più volte un’intervista, ma non volle concedermela.
L’altro arbitro del torneo si chiamava invece Casimiro. Osvaldo sostenne sempre che fosse un suo zio di ramo materno, e anche di essere entrato in possesso di un quaderno di memorie, con i tabellini di tutte le partite. Era evidente che sarebbe diventato un grande scrittore.
Il problema era che da quelle parti nessuno ricordava più le regole del gioco o la misura di un campo da calcio e così bisognò ricominciare tutto da capo. Furono stabiliti alcuni principi generali: non si doveva toccare il pallone con le mani, e nessuno poteva dare dei calci alla testa di un giocatore caduto a terra. Tutte le squadre partecipanti accettarono di rispettarle, ma si capì presto l’esatto significato dell’aggettivo “arbitrario”: in campo, Cassidy e lo zio di Osvaldo, con le loro decisioni, avevano realmente potere di vita e di morte.
I quattro gironi del tabellone erano stati combinati con il sistema della pagliuzza più corta. A Bardo del Medio si sfidavano L’ITALIA, IL REGNO DI PATAGONIA E LA POLONIA. (Si alza e ne scrive i nomi a una lavagna). A Villa Centenario TEDESCHI, FRANCESI E ARGENTINI. Sulla strada di terra, vicino al postribolo dove finivano tutti: SPAGNOLI, INGLESI E MAPUCHES. Poco più avanti, sempre sul fiume Limay, IL CILE, LA SCOZIA E L’URUGUAY.
La distribuzione delle forze in campo fu chiara sin dalla prima giornata.
A Villa Centenario, i robusti tecnici delle telecomunicazioni del Terzo Reich strapazzarono i francesi che giocavano troppo in punta di piedi. Ma la vera sorpresa fu la vittoria con cinque goal di scarto che ottennero gli indios Mapuches ai danni dei negozianti spagnoli.
Goleada che fu replicata anche contro gli inglesi, nella seconda giornata. Unico episodio negativo da segnalare, per gli indios, fu l’espulsione di un loro attaccante. Si era infilato il pallone sotto al poncho con cui giocava e aveva cominciato a correre come un pazzo verso la porta britannica. Per fermarlo, lo zio di Osvaldo dovette sparargli quasi addosso. Ma nonostante gli infortuni e le espulsioni, i Mapuches dilagarono ugualmente, approfittando dell’eccessivo fair play dei loro avversari. Sei goal di differenza, questa volta.
Per giorni, la loro bandiera continuò a sventolare legata al centro del villaggio. Non ne avevo mai vista una così: tre strisce orizzontali, una rossa, una verde e una celeste, un cerchio giallo al centro e dentro al cerchio quelli che forse erano due soli, una luna e una stella. Con una cornice nera sopra e sotto come quella cucita sui maglioni di chi abita le Ande. I Mapuche avevano resistito all’imperialismo inca, e poi a quello dei conquistadores. Furono gli unici che gli Spagnoli non riuscirono a sottomettere durante la Conquista. Forse avevano davvero dalla loro molte divinità, compreso il dio del fuoco e del tuono. Delle divinità a cui doveva piacere anche il gioco del calcio. E molto. Chiesi cosa significava Mapuche. Mi dissero Popolo della Terra, e io che non mi ero mai sentito a casa da nessuna parte, e dovunque ero stato trattato da straniero, e di nomi ne possedevo quattordici, quanti le migrazioni della mia famiglia, per la prima volta ebbi l’impressione di avere trovato, non so come dire, una nazionalità. In quella definizione mi ci riconobbi subito. Sì, appartenevo anch'io, come tutti, al Popolo della Terra. E da quel momento seppi per chi fare il tifo.
Certo, i campi da gioco erano quello che erano. Soprattutto non si capiva dove finissero. Ma c’erano le porte, e questo era già sufficiente. Come da pronostico, i tedeschi batterono anche l’Argentina, ma Cassidy gli diede una bella mano espellendo due difensori. È vero che il portiere, uno di Cordóba, si difendeva a sassate ogni volta che i tedeschi si avvicinavano alla porta, ma quella era una tecnica che avevano adottato i difensori di ciascuna squadra quando si sentivano in pericolo. Ho visto con i miei occhi gruppi di tifosi accumulare calcinacci dietro le porte e alla fine degli incontri raccogliere le pietre sparse sul campo. Osvaldo lo trascrisse diligentemente. Sì, quelle partite erano delle vere e proprie sassaiole, e finivano sempre con un buon numero di feriti e di infortunati. Di sicuro, quella fu la competizione più dura, manesca e rabbiosa della storia. Più che di azioni e di goal, i miei inutili articoli erano un elenco di falli e di scorrettezze d’ogni genere. Non è questa, la vita? mi diceva un vecchio acrobata obeso di Buenos Aires che non si perdeva una partita. Una maleducación, nient’altro che una maleducación.
Nonostante tutto, il torneo andò avanti e alla fine restarono in piedi poco meno di cinquanta giocatori, quelli che avrebbero disputato le due semifinali: Germania-Italia e Mapuches-Uruguay (le scrive, sempre sulla lavagna). Una disposizione classica: l’Europa da un lato, e dall'altro il Sud America.
La prima partì male. Qualcuno rubò la moneta che Cassidy aveva tirato per aria per scegliere il campo. Ladro e comunista! urlò il capitano tedesco a un cuoco italiano che di sera sembrava che si chiudesse in un gabinetto del cantiere a leggere Lenin. Fu l’inizio di un parapiglia generale: i russi erano malvisti da tutti. Così Cassidy espulse il cuoco per furto, ribellione e letture contagiose. E intimò a tutti gli altri di non mischiare più calcio e politica. Soprattutto agli italiani, che avevano appena bruciato uno stemma fascista. Poi si sedette su una collinetta e con un colpo di pistola, dato che non aveva il fischietto e gli animi si erano già scaldati, diede l’avvio alla partita.
I tedeschi erano scesi in campo con degli elmetti, per ripararsi dai sassi che gli sarebbero caduti sulla testa. Ma gli elmetti gli rallentavano i movimenti e davano al pallone, quando ci sbatteva contro, strane traiettorie. Per di più, gli italiani avevano studiato una contromossa: tenevano nascoste dietro la schiena manciate di peperoncino da tirare negli occhi dei loro avversari, quando la visuale dell’arbitro era coperta. Lo schema funzionò e la difesa azzurra, nonostante l’uomo in meno, resistette ordinatamente, soprattutto grazie agli indiscutibili effetti del peperoncino sulla mira degli attaccanti nemici.
Per gli italiani, la tattica era una sola: resistere con i denti, e giocarsela di contropiede. Già allora ne erano i maestri. L’anarchico Mancini, imprendibile come un capitone, non sbagliava un passaggio né un tiro. L’Italia andò avanti due volte: per due a uno, e poi per tre a due. Ma al calare della sera, dopo tre ore di gioco – nessuno del resto ricordava più quanto dovesse durare una partita regolamentare –, a Cassidy restituirono il suo dollaro d’oro in una tabacchiera con una svastica incisa sull’apertura e dentro altre venti monete. Il figlio del bandito allora si alzò, si stirò i baffi e il gilet da entrambi i lati ed entrò in campo. Gli italiani stavano per battere un corner. Mancini saltò più in alto di tutti, ma un difensore tedesco lo punse al collo con una spilla. Mentre era ancora a terra, che piagnucolava, Cassidy gli puntò la Colt alla tempia e lo espulse per simulazione. Fu in quelle fasi di proteste convulse, che Cassidy scoprì il trucco degli italiani: il peperoncino cucito nei mutandoni. Sparò altri due colpi in aria e decretò tre rigori di fila per i tedeschi: due diretti, e uno indiretto.
In segno di dissenso, il caposquadra Cascio, l’uomo che aveva scritto quella lettera sgrammaticata per la quale in fondo io mi trovavo lì, si piazzò tra il portiere e il rigorista tedesco. Cassidy non ebbe esitazione: ricaricò il revolver e gli sparò a un piede. Il caposquadra Cascio prima saltò come un animale indemoniato, poi si accasciò svenuto a terra. Pensai che avrebbe probabilmente zoppicato per il resto dei suoi giorni e giurai a me stesso che avrei raccontato in ogni dettaglio alla famiglia, nella casa di Testaccio, la sua eroica contestazione.
Per battere i rigori fu scelto un ingegnere prussiano timido e miope che aveva giocato recitando l’Ecclesiaste tutto il tempo. Trattenemmo il fiato. L’ingegnere inforcò gli occhiali, prese la rincorsa e ne trasformò due su tre (sbagliò solo quello indiretto). Furono sufficienti. GERMANIA 4 - ITALIA 3. (Lo scrive sulla lavagna). Agli italiani ci vollero trent’anni per ribaltare questo risultato. Ma anche quella volta non servì a nulla.
I campioni in carica, che avevano detenuto il titolo per quasi un decennio, erano stati irrimediabilmente sconfitti.
Sembrava impossibile, ma l’Italia era fuori dal campionato del mondo di calcio!
Con ogni probabilità, la Coppa Rimet sarebbe partita per Berlino alla fine della settimana. La finale era solo una pura formalità, poiché, nello stupore generale, a sfidare i tedeschi sarebbero stati quel gruppetto di indios primitivi, che aveva battuto pure la Celeste, una formazione di allampanati ballerini di milonga della provincia di Montevideo, impiegati anche loro alla diga.
Al postribolo di Zapala, quella notte, si parlò deutsch fino al mattino.
Ja! Ma tutte queste cose le trovate così come ve le ho dette ora, quasi parola per parola, in uno dei malinconici racconti che solo Osvaldo sapeva scrivere così bene, tanto che non so più se fu lui a ricopiare la mia voce e tutto le storie che gli avevo raccontato, o se invece adesso sono io a fargli il verso, ripetendo il suo inconfondibile modo di ridare vita ai miei ricordi.
Quello che neppure Osvaldo, però, ebbe cuore di scrivere fu la vera cronaca della finale. Le dedicò una paginetta sbrigativa. Precisò l’ora e la data: le tre del 19 dicembre del 1942, di domenica. Scrisse che la linea telefonica era stata ripristinata e si attendeva solo la fine dell’incontro per usare quel telefono nuovo, nero e fiammante, che sarebbe passato alla Storia. Scrisse anche che zio Casimiro fece il guardalinee. E che appena fu sparato il colpo d’inizio, le colline intorno al campo si popolarono di indie a seno nudo che ballavano.
Scrisse che si scatenò una grandinata furiosa e che il terreno di gioco diventò un pantano, e che nella confusione e nel fango le porte scomparvero e quindi si dovette giocare fino all’ora di cena “perché non si sapeva più dove infilare i goal”. Scrisse che Cassidy assegnò sei rigori di fila ai tedeschi, perché le donne Mapuches erano troppo nude, ma che senza porte nessuno poté tirarli. Scrisse che si proseguì al buio, e che a Berlino, a furia di aspettare il risultato, si era fatta mattina. E alla fine se la cavò con una trovata da saltimbanco: giurò, e spergiurò, che all’improvviso una delle porte era apparsa sull’alto di una collina, e che tutti potevano vederla, e che pure le donne ripresero le loro danze senza musica. Fu una di loro che andò incontro al pallone che pioveva chissà da dove, come un grande chicco di grandine tardivo, proveniva da Amburgo ma aveva una valvola automatica, e con un leggerissimo tocco di testa lo “lasciò adagiare davanti ai pali affinché un ballerino scalzo che rideva a crepapelle lo mettesse in goal di destro”.
Cassidy tentò di annullare il goal, ma il suo colpo di pistola si perse nell’urlo festoso che proruppe da tutti i Mapuches presenti e Casimiro, l’improbabile zio di Osvaldo, corse verso il centro del campo.
MAPUCHES 1 - GERMANIA 0.
I Mapuches scesi dalle Ande erano i nuovi campioni del mondo.
Ecco, questo scrisse Osvaldo. Perché non sopportava i torti, e voleva che almeno sulla carta le ingiustizie fossero riparate, e i potenti presi per il culo, e le cose, tutte le cose storte del mondo, rimesse a posto.