Morire per sopravvivere
Un assaggio dal libro
Da Morire per sopravvivere. Una storia vera all'85% di Chuck Klosterman
Il giorno prima del primo giorno
New York ▶ Cavalli morti ▶ Alla ricerca del nulla
Per vivere in questo posto mi mancano i requisiti.
Non so quali siano i requisiti necessari per vivere in un dato luogo in un dato tempo, ma so di non possederli.
Ohio. Avevo tutti i requisiti per vivere nell’Ohio. Adoro le partite di football delle scuole superiori. Adoro i self-service cinesi. Reputo passabile il primo disco dei Pretenders. Vivere nell’Ohio non era fuori della mia portata. Ma questo posto che chiamano New York... questo posto che Lou Reed non ha smesso di descrivere a nessuno in particolare... questo posto è assai più complicato. È tutto una truffa e tutti sono dei potenziali truffatori. Prima di andarci a vivere, a Manhattan c’ero stato due volte soltanto. Due giorni prima di fare armi e bagagli e lasciare Akron, ero al telefono con l’uomo che sarebbe divenuto il mio diretto superiore alla rivista Spin e gli esprimevo le mie ansie riguardo a quel trasferimento. Lui cercò di spiegarmi come sarebbe stata la mia vita lì; all’epoca, gli unici dettagli che riuscivo a ricordare dei miei due viaggi a New York erano: a) che i bar non chiudevano fino alle quattro del mattino e b) che sembrava esserci un numero infinito di belle donne in giro per strada. «Non illuderti», mi disse il mio caporedattore accarezzandosi (idealmente) la barba alla Clapton. «Io sono cresciuto nel Minnesota, e anch’io, all’inizio, credevo che le donne di New York fossero tutte belle. Invece adesso ti dico io come stanno le cose: molte sono soltanto ragazze carine del Midwest che si sono fatte tagliare i capelli da un costosissimo parrucchiere e che passano troppo tempo in palestra». Questo non fece che aumentare la mia confusione, perché quella mi sembrava essere esattamente la definizione di bella donna. Alla fine, sono comunque riuscito ad afferrare la logica tortuosa del mio barbuto caporedattore: la sessualità si compone di un 10% di realtà e per il rimanente 90% di illusione. Quando sono arrivato in questa città per la prima volta era febbraio. Continuavo a vedere donne snelle in attesa di un taxi, tutte con maglioncino a dolcevita nero, muffole nere, sciarpa nera e berretto di maglia nero... ma niente giacca. Nessuna portava la giacca. C’erano due gradi sottozero. Un tale abbigliamento (particolarmente in quelle condizioni climatiche) rende elettrizzante qualsiasi donna. La maggior parte aveva anche una sigaretta in mano. E questo aiuta sempre. Me ne frego di quello che pensa il ministro della Salute C. Everett Koop: fumare è, in genere, un’ottima decisione.
La redazione di Spin si trova al terzo piano di un edificio su Lexington Avenue, una strada che gli attori di Law & Order chiamano spesso «Lex». È sempre la primavera del 1996 negli uffici di Spin; sarà la primavera del 1996 per sempre. In sostanza, quasi tutti quelli che lavorano lì assomigliano: a) a un membro del gruppo dei Pavement o b) a una ragazza che un tempo usciva con un membro dei Pavement. La prima volta che ho messo piede in quella redazione, c’erano tre tizi che parlavano senza alcuna ragione apparente di J Mascis, e uno di loro definiva «incisive» le sue improvvisazioni alla chitarra. Rientravano in quel momento dal pranzo. Erano le 15.30. Io ero la quinta persona più vecchia di tutta la redazione: avevo ventinove anni.
In questo periodo sto lavorando a un progetto senza titolo sulla morte, e voi state leggendo il suddetto progetto. Oggi lascerò la redazione di Spin per recarmi al Chelsea Hotel. Una volta sul posto, chiederò alla gente di parlarmi dell’assassinio, avvenuto nel 1978, di Nancy Spungen, una donna le cui urla ultrafastidiose furono immortalate nel 1986 nel film intitolato Sid & Nancy. Il «Sid» di questa equazione era, ovviamente, Sid Vicious, il bassista favolosamente rimbambito dei Sex Pistols e presunto assassino di Nancy. La settimana in cui uscì nelle sale, Gene Siskel e Roger Ebert recensirono Sid & Nancy nel loro programma televisivo At the Movies, e quella fu la prima volta che sentii parlare dei Sex Pistols. All’epoca, i Sex Pistols non mi interessavano affatto: mi piacevano i Van Halen. Nel 1987, un mio compagno di scuola mi disse che avrei dovuto ascoltare i Sex Pistols perché avevano fatto un album che si chiamava Flogging a Dead Horse [«Frustando un cavallo morto»], il genere di frase che avrei trovato degna di nota al secondo anno delle superiori. Tuttavia, ignorai il suo consiglio: mi piacevano i Tesla. Nel 1989 comprai la cassetta di Never Mind the Bollocks perché era in saldo e mi faceva pensare ai Guns N’ Roses. Johnny Rotten aveva scritto una canzone antiabortista intitolata «Bodies», e nondimeno aspirava sempre a essere l’anticristo.Questo mi colpì come un’espressione di puro conservatorismo.
Il ritornello della canzone «Pretty Vacant» mi risuona nella testa mentre gironzolo per gli uffici di Spin, ma si direbbe che il solista sia Gavin Rossdale. Passo davanti alle stagiste in prendisole, e alle aggressive e rampanti ragazze alle prese con prenotazioni aeree, e ad almeno tre persone che vorrebbero tanto starsene fuori a fumare una sigaretta. Sono le 14.59 ed è ora che mi metta a trovare qualche decesso.
Il mio viaggio nel buio è ufficialmente cominciato: mi trovo nell’atrio, in fondo alle scale, di fronte all’ingresso, nell’afa sensazionale. Le estati newyorkesi sono più calde di quelle di Atlanta. In questo momento, mi rendo conto che la temperatura è più alta ad Atlanta, e ad Atlanta l’umidità è superiore, che cose come la temperatura e l’umidità sono estensioni della scienza, e che la scienza non ha mai torto. Ma Manhattan è una fornace hipster, ed è questo che fa la differenza; il calore è per il 15% reale e per l’85% percepito. Il suolo è caldo, gli edifici in mattoni sono caldi, il cielo è basso, la gente è incazzata, e tutto puzza di sudore, vomito e di immondizia liquefatta. Uno spettacolo davvero raccapricciante, e così ho imparato a odiare il mese di luglio. Nella redazione di Spin la gente mi prende in giro perché vado al lavoro con i bermuda, insistendo sul fatto che così sembro un turista. Io me ne frego. In un certo senso siamo tutti turisti. In un certo senso, la vita stessa è turismo. Per quel che mi riguarda, i dinosauri hanno ancora il contratto d’affitto di questo sasso dimenticato da Dio.
Mi ci vogliono quarantacinque secondi per trovare un taxi, sulla Lex; al momento mi dirigo a ovest, a passo d’uomo. Sono già stato a Chelsea, ma non so veramente dove comincia e dove finisce; capisco di essere arrivato solo quando: a) qualcuno me lo dice o b) mi ritrovo in un ristorante thailandese e improvvisamente mi rendo conto che ci lavorano solo travestiti non operati. Questo traffico è una piaga, ma stiamo per arrivare. A ogni isolato che superiamo, il panorama si fa sempre più ordinario e più vecchio, come uno spezzone di Sesame Street. Dieci minuti fa stavo bevendo una Mountain Dew nel consapevole 1996 di Spin e adesso mi trovo ad attraversare in taxi un’accidentale incarnazione del 1976. È l’estate del 2003. Ho attraversato tre piani in verticale, quattro isolati in orizzontale e cinque sfere della realtà. Vi starete probabilmente chiedendo perché do inizio al mio progetto al Chelsea e non al Dakota, l’hotel dinanzi al quale fu assassinato John Lennon nel 1980. Se lo chiede anche una parte di me. Quello di John Lennon è senza dubbio l’assassinio più celebre di tutta la storia del rock, ed è anche un argomento che conosco piuttosto bene: so quante cassette dei Beatles aveva Mark David Chapman nella giacca quando sparò nel petto a John Lennon (quattordici), e so il risultato della partita trasmessa quella sera da nfl Monday Night Football, quando Howard Cosell annunciò l’assassinio in diretta (Miami 16, New England 13, ai tempi supplementari). So che Chapman era pian piano arrivato a credere di essere John Lennon (tanto da sposare una donna di origine giapponese di quattro anni più vecchia di lui), e ricordo in che modo mio padre liquidò l’omicidio l’indomani a cena, deplorando il fatto che la morte di un musicista si assicurasse più pubblicità di quella, inaspettata, di papa Giovanni Paolo i. Vista dai miei otto anni, la morte di Lennon fu davvero inquietante, soprattutto perché non riuscivo a capire come mai il chitarrista ritmico di un gruppo rock fosse tanto adulato da tutti. Per qualche oscura ragione, avevo l’erronea impressione che Paul McCartney fosse l’unico vocalist dei Beatles. Quell’avvenimento non provocò in me alcuna tristezza. Ora che sono cresciuto, l’assassinio appare ai miei occhi come sempre più folle, ma non necessariamente più tragico; credo di non essermi mai commosso per la morte di un personaggio pubblico. Penso però a come sarebbe stato se John Lennon fosse ancora vivo, e a volte tremo all’idea che avrebbe registrato un terribile mtv Unplugged nel 1992. Ma non è di Lennon che devo preoccuparmi oggi; oggi sono totalmente concentrato sul punk rock. Il mio capo vuole che ragioni come un punk, e io sono tentato di sputare su un passante per protestare contro il ristagno dell’economia britannica.
Il mio capo a Spin (una bionda straordinaria che si chiama Sia Michel) mi ha fortemente consigliato di andare al Chelsea Hotel perché «i nostri lettori» vanno pazzi per il punk rock. Un fatto difficilmente confutabile. Io sono probabilmente l’unico dipendente nella storia di Spin a pensare che il punk rock – in quasi tutti i contesti, forse con un’unica eccezione – sia palesemente ridicolo. Nondimeno, la morte della Spungen mi intriga; la relazione tra Sid e Nancy è l’eterna rappresentazione della parte peggiore di quando si è innamorati, ovvero del fatto che le persone innamorate non possono essere ragionevoli.
Sid Vicious non era il primo bassista dei Pistols; era entrato a far parte del gruppo quando gli altri avevano già cacciato Glen Matlock, uno dei fondatori. Parlando di Sid Vicious, la sola cosa di cui tutti sembravano essere al corrente era che non sapesse affatto suonare il basso. Ironicamente (o forse prevedibilmente), l’incapacità di Sid di suonare il suo strumento rappresenta l’unico elemento cruciale di tutta la storia del punk rock. È l’esempio cui tutti ricorrono (consciamente o inconsciamente) per difendere l’importanza di qualsiasi entità musicale che non sia necessariamente musicale. Il fatto che egli non sapesse fare correttamente una cosa – ma che lo facesse tuttavia in maniera significativa – è tutto quanto serve sapere del punk rock. Questo concetto è il punk rock, definito completamente in una frase. È come in quella scena del film Breakfast Club, dove la caricatura del nerd, interpretato da Anthony Michael Hall, spiega perché ha meditato il suicidio dopo non essere riuscito a costruire una lampada a forma di elefante che funzionasse durante la lezione di applicazioni tecniche, facendosi per questo chiamare idiota da Judd Nelson. «Quindi sarei un maledetto idiota perché non so fare una lampada?», domandava il personaggio interpretato da Hall. «No», rispondeva Nelson. «Tu sei un genio proprio perché non sai fare una lampada». Sid Vicious era un genio musicale in quanto incapace di fare musica, una base poco ragionevole su cui edificare tutta una vita. E la cosa non fece che peggiorare quando incontrò una persona terribile e decise che l’amore nei suoi confronti era così intenso che lei meritava di morire.