Le solitudini di Richard Yates
n questa rubrica in collaborazione con minimum lab ospitiamo sul magazine articoli di approfondimento a cura dei nostri corsisti: Raffaella Arena ci racconta Undici solitudini di Richard Yates.
di Raffaella Arena
Malgrado minimum fax abbia pubblicato Revolutionary Road e le altre opere di Richard Yates fin dal 2003, io sono arrivata tardi alla loro lettura. Allora guardavo il romanzo più famoso di Yates sugli scaffali della libreria come si guarda una persona che ti piace, indecisa a fare il primo passo. Poi finalmente me lo hanno regalato, il che è, più o meno, come quando un’amica ti presenta quella persona. A quel punto mi sono ritrovata invischiata in una relazione con questo autore e non mi è rimasto che continuare la lettura dei racconti.
Così ho iniziato Undici solitudini. E fin dalla lettura del primo racconto, Il Dottor Geco, la domanda che ha cominciato a risuonarmi profonda è: chi siamo noi, lettori di Richard Yates? Leggendolo, mi scorgo timidamente in Miss Price, la dolce, devota maestrina che vuole salvare se stessa cercando di fare un bene non richiesto. Ma comincio a credere che questo accada a chiunque legga questo racconto: ci riconosciamo nella borghese Miss Price che, per farsi accettare dal suo mondo - il direttore, i colleghi di scuola - e darsi uno scopo, intende “salvare” Vinny Sabella, il più debole fra i suoi alunni. Ma pretende di farlo a modo suo, un modo che è totalmente fuori luogo rispetto alla persona di Sabella, il ragazzino che proviene dai bassifondi di New York. “Verso la fine della settimana Sabella era sulla buona strada per diventare il peggior tipo possibile di beniamino della maestra: quello che è vittima della pietà dell’insegnante.”Poi, poco a poco e con non meno imbarazzo, scopriamo tratti della nostra anima proprio in Vincent Sabella, il ragazzo che non sa smettere di inventare frottole.
Forse siamo più quel Vinny Sabella che vive con gli anziani zii adottivi e che va in giro con una maglietta di una taglia più piccola e mani e denti sudici. Quello stesso Sabella che punisce Miss Price ritraendola nuda su un muro, con i capezzoli a punta e il pube villoso, e un grande fumetto da cui escono parole sporche che, nella vita reale, Miss Price mai oserebbe pronunciare. A questo punto ci siamo già resi conto che la domanda davanti alla quale ci pone Yates con questi racconti è: quale solitudine è la tua? Ma questa prende ben presto un’altra forma: quante solitudini si nascondono dietro alle undici raccontate da Yates? Probabilmente tutte le nostre solitudini di uomini e donne moderni, perché, in definitiva e come scopriremo velocemente, per Yates, solitudine è sinonimo di male di vivere.
Le undici solitudini di questi racconti sono in realtà miliardi di solitudini, e queste in fondo si somigliano tutte. Cosicché il tenente Reece di Jody ha il coltello dalla parte del manico ricorda la signorina Snell de Il regalo della maestra, che maltratta la classe con quel “tono piatto, asciutto e senza slanci” che la rende tanto insopportabile. Tutte le donne sposate di Yates rimandano le une alle altre e sono tutte sorelle fra di loro, e anzi, per certi versi, richiamano alla mente le donne che stanno al parco e spingono carrozzine, chiacchierando fra di loro, di un’altra grande scrittrice del racconto che è Grace Paley.
Come ci siamo già accorti, ne Il Dottor Geco la solitudine non è solo quella di Vincent Sabella, come potrebbe sembrare inizialmente, ma lo è anche quella della signorina Price. In Tutto il bene possibile, la solitudine è quella di Ralph, che codardamente scopre solo alla fine che i suoi amici gli vogliono davvero bene e hanno acquistato per lui la valigia che pensa non vogliano neanche prestargli; ma anche quella della sua futura moglie, Grace, che non sa chi è e aspetta un futuro già scritto nel matrimonio. In Jody ha il coltello dalla parte del manico, la solitudine è così generalizzata da non essere solo dell’antipaticissimo sergente Reece, ma anche dell’altrettanto anodino tenente e di tutti i ragazzi: Schacht, D’Alessandro, della voce narrante e dei loro compagni. Insomma ci si rende ben presto conto che per Yates la solitudine è un atteggiamento. Una condizione umana. E non c’è scampo a questa condizione, anche se i suoi protagonisti cercano vie di fuga per allontanarsene e trovando sollievo a volte nel matrimonio, altre nell’amicizia, altre ancora in un senso di appartenenza comune, come accade a dei commilitoni o a dei malati di tubercolosi, costretti a vivere assieme in una baracca dell’esercito o nella corsia di un reparto infettivo.
Quando Yates parla di matrimonio sa farlo molto bene: conosceva, evidentemente, le dinamiche che si instaurano fra un uomo e una donna che si innamorano e finiscono per sposarsi. Quello che non ci dice, ma ci lascia solo intendere come se ci fossimo arrivati da soli, è che quando un uomo e una donna si innamorano e decidono di sposarsi potrebbero essere due qualsiasi fra le migliaia di uomini e donne presenti in città. Come accade con le ragazze adescate da Fallon e dai due soldati nel racconto Il mitragliere: pescate a caso tra la folla che balla, solo per allontanare la rabbia, la tristezza e, ancora una volta, la solitudine. Quando Walter, il protagonista di Una gran voglia di punizione, ricorda il suo primo incontro con quella che poi diventerà sua moglie, dice: “Le cose che aveva detto lei, o il suono della sua voce quando le diceva, lo avevano fatto sentire più alto e più forte e con le spalle più larghe.”
Che Yates ne fosse consapevole o meno, a me sembra che stia parlando esattamente dello specchio deformante di cui scrive Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé. Quello specchio che piace tanto agli uomini e che, tenuto all’occorrenza dalle donne, serve solo a far sembrare più grandi le loro normalissime qualità. E questo specchio, tutto sommato, sembra dirci Yates, può tenerlo una donna qualsiasi, la prima che è disposta a farlo. In ogni caso Yates sapeva bene che le donne muovono a piacimento quella superficie riflettente e che la utilizzano come specchietto per le allodole e, una volta tirata fuori e posta davanti all’uomo che si è riflesso e visto ingigantirsi, possono riporla dopo aver ottenuto quello che vogliono - e cioè, spesso, il matrimonio. “Hai un gusto meraviglioso in tutto” […] “Una mente davvero originale, davvero raffinata”, dice la studentessa svedese di arte a Carson, uno dei due protagonisti di Un buon pianista di jazz, durante la loro prima memorabile notte assieme, incastrandolo e allontanandolo dal suo amico Ken, che lo aspetta a Cannes. Salvo poi mostrarsi “persino distratta come se stesse meditando sulla sua prossima mente davvero originale”, quando lui le annuncia che sarebbe andato a Cannes per raggiungere l’amico. Il matrimonio ha l’ambizione di voler annullare la solitudine; almeno inizialmente.
Per Grace del racconto Tutto il bene possibile, dopo il matrimonio non ci sarebbe stato nessuno al mondo all’infuori di Ralph (il prescelto) ad indicare la strada. Negli anni cinquanta ci si aspettava ancora che a “indicare la strada” fosse il marito. Le ragazze ottenevano il diploma, lavoravano un po’ in un ufficio e poi, a suggellare una vita, le aspettava il matrimonio, i figli e la cura domestica. Dopo il matrimonio tutto si sarebbe appiattito nella vita quotidiana. La giovane moglie ne verrà risucchiata, trasformandosi in una casalinga petulante e lui, il marito, potrà dire addio agli anestetici incontri al bar con gli amici per commentare la boxe o le partite degli Yankees. A volte, invece, la solitudine si annulla stando con qualcuno, un amico nel quale riconosci le tue stesse debolezze, la tua stessa incapacità di stare al mondo, qualcuno che ritieni solo un tantino migliore di te: Ma sulla faccia di Carson Ken vide dipinta l’espressione, stranamente familiare, del suo stesso animo, la medesima espressione che lui, Platt culo di lardo, aveva mostrato tutta la vita agli altri: lo sguardo di un essere tormentato, vulnerabile, incapace d’indipendenza, desideroso di sorridere, uno sguardo che diceva: “Non lasciatemi solo, per favore”.
Il malato di tubercolosi è poi per Yates l’emblema stesso della condizione di solitudine di una vita umana, perché vive nel suo padiglione isolato; la realtà del mondo di fuori entra a spiragli, durante le visite settimanali di qualche moglie ormai distratta, o quando il malato va a casa in licenza per un giorno o due, durante le festività natalizie. In quei momenti il tubercolotico si rende conto che quella vita là fuori, a cui ha aspirato di tornare, non è più buona ad accoglierlo. Che non rimane che trascorrere la sera dell’ultimo dell’anno a guardare le finestre di ponente del reparto che si fanno di un tenue giallo per il tramonto che va sparendo. Ad un certo punto la finestra si fa nera e riflette solo le luci, le lenzuola e i pigiami della corsia. Il malato McIntire, in Abbasso il vecchio!, guarda il buio fuori e, quando si stacca dalla finestra, sente un certo sollievo e quasi un senso di ringiovanimento per il trovarsi in quel padiglione in mezzo a gente accomunata dalla malattia.
Come dice Richard Ford nell’introduzione al romanzo più noto di Yates, Revolutionary Road, e che a me sembra si possa estendere a proposito di tutti i suoi personaggi: “Ognuno a suo modo (è) inabile a fare del bene, o incapace di quel legame umano che potrebbe intrecciare un tessuto di spirito collettivo abbastanza forte da trattenere i più deboli in caso dovessero vacillare.” I personaggi di Richard Yates sembrano chiusi nelle gabbie delle loro solitudini. E addirittura la solitudine è una condizione talmente tanto universale che diventa il male di vivere stesso. Essi sembrano incapaci di tessere relazioni umane: le uniche a cui pensa Yeats sono il matrimonio e qualche legame d’amicizia; entrambe comunque andranno sempre tradite o spezzate.
Qualsiasi indole non mostra alcuna capacità di cambiare ma solo di subire, ed è questa dinamica dell’animo umano che mi ha sempre affascinato sulla pagina, da Yates, a Verga, a Woodrell: questo senso di profonda, inconscia, sconfitta a cui non ci si sa sottrarre. In Una gran voglia di punizione, il protagonista Walter, che, appena licenziato incede solitario e solenne, è la rappresentazione stessa di questo senso di sconfitta. Yates dice di lui: “Impossibile negare che il ruolo di chi sa perdere con disinvoltura avesse sempre avuto su di lui uno strano fascino.” Per dirla ancora una volta con Ford: “Yates ci ha condotto attraverso l’arte vicino ai dettagli tangibili della vita tanto da permetterci di riconoscervi le nostre vite, eppure ci ha mantenuto a una distanza dalla quale possiamo esercitare la nostra facoltà di giudizio e provare sollievo al pensiero che noi non siamo i Wheeler.” O qualsiasi altro personaggio dei suoi racconti.
Raffaella Arena nasce e vive a Catania dove ha fatto per lungo tempo la libraia. Siccome è convinta che la postura dell'allieva le si addica particolarmente, ha frequentato parecchi corsi di scrittura in giro per l'Italia e con vari maestri. Nel 2018 ha partecipato al corso Laboratorio di narrativa sul racconto, a cura di Alessandro Gazoia e Giuseppe Zucco, organizzato da minimum lab. Nel corso del 2019, invece, ha frequentato il corso Album sulla scrittura biografica, tenuto a Palermo da Giorgio Vasta. A dicembre un suo racconto uscirà sulla rivista Risme.