Intervista a Marta Baiocchi
Giulia Bussotti intervista Marta Baiocchi per l’uscita del suo romanzo d’esordio, Cento micron.
Le due donne protagoniste del tuo racconto, Eva e Bibi, sono molto diverse, direi quasi agli antipodi per formazione, status sociale, e modo di agire. Eppure la loro alleanza diventa determinante nel raggiungimento dello scopo, che è tuttavia comune, anche se chiaramente per ragioni diverse. Vorrei che ci dicessi, senza svelarle troppo, perché hai pensato queste due figure femminili così complementari? Perché Eva è Eva e non Bibi?
Credo che Bibi rappresenti il desiderio profondo, quello più viscerale e privo di razionalizzazione. Quel desiderio che, a ben guardare, è quello che fa andare avanti il mondo. Eva, dal canto suo, è colei che assiste alla vicenda, e in qualche modo la filtra attraverso il suo sguardo; è quella che riflette. Del resto Bibi, io credo, non sarebbe stata capace di raccontare la propria storia: è troppo impegnata a viverla.
2Eva, biologa, convive con uno scrittore molto più grande di lei. I due discutono spesso per via dell’affair in cui Eva si lascia coinvolgere dalla sua ex compagna di liceo, e questo espediente narrativo apre una riflessione sul conflitto tra sapere umanistico, incarnato dallo scrittore, e sapere scientifico, incarnato da Eva. Che ne pensi tu, da scienziata scrittrice? È vero che questi due saperi spesso non si parlano o parlano lingue diverse, anche laddove il dibattito sui temi più propriamente etici, gioverebbero di un fronte linguistico comune nelle battaglie per cambiare le leggi, o quantomeno per metterle in discussione?
Che la cultura cosiddetta “umanistica” da noi non abbia incorporato nella propria riflessione la filosofia della scienza altrettanto velocemente che nei paesi di più forte tradizione scientifico-tecnologica, non è un mistero né una novità. Mi sembra tuttavia negli ultimi anni la consapevolezza del potenziale delle scienze di cambiare la nostra vita, vada costantemente aumentando, e che l’interesse verso questi temi sia sempre più diffuso. E in effetti questa è una delle ragioni che mi ha spinto a scrivere un libro come questo.
L’altro conflitto è quello generazionale. Eva ha circa 38 anni e si sente stretta tra due fuochi. Da una parte ci sono i giovani ricercatori sciatti e distratti che invadono i laboratori come cavallette da scongiurare, dall’altra i vecchi, che sedimentano sulle loro poltrone diroccate e continuano a cancerizzare lo stato della ricerca nel nostro Paese con il più autoctono dei mali, il baronaggio. Eva è avvilita e cerca di ribellarsi, come tanti stanno provando in Italia e specie nell’ultimo anno, al peso che le generazioni precedenti esercitano sui trenta/quarantenni, il potere ingiusto che i padri non vogliono lasciare ai loro figli. Se questo secondo fuoco è chiaro, faccio fatica a inquadrare il primo, cioè il conflitto con i giovani, e vorrei che me lo spiegassi. Quando scrivi per esempio: Quanto tempo ci è voluto per capire, i fallimenti non bastavano mai. Eppure fallivamo sempre, e ogni volta peggio della volta precedente. E quando finalmente ho capito, il mondo all’improvviso non era più mio. Era nelle mani loro, ormai. Di questi giovani…
Eva è un personaggio a cavallo tra due mondi, e questo le consente di avere una visuale per certi versi più ampia. Sa che cattivi maestri raramente generano buoni allievi, in discipline in cui, oltre a un talento personale di creatività e fantasia, è indispensabile una lunga formazione e solide competenze tecniche. L’incapacità dell’accademia, o di alcune sue parti, di dare ai giovani un’ istruzione solida, adeguata alle necessità del mondo contemporaneo, ha effetti altrettanto gravi dell’attaccamento al potere di maestri troppo invecchiati. Non è un caso, infatti, che Eva abbia fatto tesi e dottorato fuori dal Dipartimento, in un Centro dove ha probabilmente avuto insegnanti di maggior calibro del Vecchio.
Qual è la tua posizione sulla fecondazione assistita, sul social freezing e sulla selezione degli embrioni? Auspichi davvero, come Eva nelle ultime pagine del romanzo, in quel brain storming interiore in cui ci lasciamo, noi lettori, invorticare insieme con lei, che siano le donne, alla fine, le sole a decidere qual è la cosa più giusta da fare: Ma le donne. Saranno loro a risolvere la questione.
Il mio non è un auspicio, è piuttosto una considerazione. Quello che mi interessava, non era portare avanti specifiche posizioni personali - che sono certamente laiche - ma porgere punti di vista più materiali, più immediati. Il punto di vista di chi con le tecnologie moderne ci lavora, e quello di chi le utilizza. O vorrebbe utilizzarle. Ecco, a me sembra che regole e divieti basati su puri concetti astratti alla lunga finiscano inevitabilmente sconfitti dal confronto con i desideri e i bisogni profondi delle persone vere: quelle che vivono certe questioni da dentro, nella loro vita reale. Soprattutto nel momento in cui le tecnologie diventano sempre più facili da usare, sempre più a portata di mano.
Perché hai deciso di scrivere un romanzo civile e non un’opera di saggistica su questo tema così delicato e specialistico. Tu hai scritto un romanzo servendoti delle tue competenze da ricercatrice sulle cellule staminali e non un saggio su questo tema che si appoggiasse alle tue capacità di scrittrice. In questo c’è una scelta ben definita. Avevi in mente un altro tipo di pubblico? Avevi di certo un altro tipo di urgenza…
Su questo, come su altri temi delle nuove tecnologie, esistono già molti ottimi saggi, ai quali probabilmente non avrei avuto molto da aggiungere. Quello che volevo, era trasportare questioni generali nel particolare: raccontare la vita dei ricercatori nei suoi aspetti più quotidiani e materiali, con tutte le sue difficoltà: quelle che fanno parte di per sé del lavoro sperimentale, e quelle che ci si aggiungono gratuitamente per il fatto di essere in Italia, un paese con una tradizione ancora insufficiente e con una cronica scarsezza di fondi. Allo stesso modo, volevo raccontare il punto di vista di chi si accosta all’uso delle nuove tecnologie per desiderio o necessità, e di quanto possano apparire remoti certi principi a chi sente a portata di mano il modo di soddisfare un bisogno profondo. Ecco, mi sembrava che su questi temi l’informazione fosse abbondante, mentre fosse forse scarso il racconto: è per questo che mi è venuto il desiderio di provare a farlo io.