Enrique Vila-Matas su «Il paese dove non si muore mai»

Prologo al romanzo di Ornela Vorpsi - Traduzione di Giovanni Dozzini

Enrique Vila-Matas – Prologo a «Il paese dove non si muore mai»  
– Traduzione di Giovanni Dozzini 

Fu nell'inverno del 1977 che all'improvviso cominciai a provare un interesse insolito per Tirana, la capitale dell'Albania. Mi ricordo, mi ricordo. Je me souviens, diceva Perec in quel libro in cui parlava dei suoi ricordi apparentemente più banali. C'era molta gente della mia generazione che nella rivista El Viejo Topo parlava di Albania e presentava questo paese come l'esempio perfetto di una società maoista ideale. Solo un anno prima avevo cercato nel Dizionario Espasa dei miei, e in un articolo del 1933 si diceva, a proposito di Tirana, che era una piccola città agraria con molte moschee, e un trionfo di fabbriche di sapone. Ero rimasto un po' sorpreso, ma pochissimi anni più tardi mi avrebbero lasciato più perplesso quei numerosi testi in cui il miserabile Enver Hoxha veniva presentato come il migliore dei cittadini del mondo. E quando l'anno seguente, nel 1978, la Cina maoista ruppe con l'Albania facendola sprofondare in una già quasi assoluta miseria, capii ancora meno i curiosi desideri degli ideologi dell'estrema sinistra spagnola. Tutto ciò per me era molto strano, dato che nel nostro paese avevamo sopportato quaranta spaventosi anni di dittatura e non sembrava ragionevole che, alla morte del nostro tiranno, dei giovani della mia generazione proponessero un nuovo modello di assassino come guida dello Stato. Già a quei tempi alcuni di noi sapevano che Enver Hoxha, il dittatore albanese, era un miserabile criminale che terrorizzava tutti i suoi sudditi e a cui prima o poi sarebbe toccata una fine terribile. E sembra che gli toccò davvero quando, pazzo di paura, sequestrò lo sventurato dentista Petar Shapallo che tanto gli somigliava perché gli facesse da doppio nelle cerimonie ufficiali (tutti volevano ucciderlo), e tutto ciò lo fece manovrato come un fantoccio da sua moglie, la potente Nexhemije, il vero cervello della dittatura, colei che probabilmente lo uccise, con un ultimo litigio, nel 1985.

Ciò che oggi a noi pare semplicemente grottesco per Ornela Vorpsi, nata nel 1968 a Tirana, è stato un incubo enorme, un gigantesco orrore che, descritto nel Paese dove non si muore mai, la porta a ridere attraverso il cammino del pianto più puro e più denso. È una vera delizia, e devo dire che rimango incantato dal peregrino e tragico senso dell'umorismo di questa scrittrice che, forse per la sua relativa somiglianza fisica e soprattutto spirituale con Audrey Hepburn, finisce per ricordarmi sempre qualcosa che diceva la stessa Hepburn: “Adoro la gente che fa ridere. Credo sinceramente che ridere sia la cosa che mi piace di più. Può curare moltissimi mali. Probabilmente è la cosa più importante, in una persona”.

Ornela ha passato tutta l'infanzia e l'adolescenza sognando l'esilio. E la verità è che, leggendo quello che racconta nel suo libro, è sorprendente anche solo il fatto che potesse sognare. Com'era possibile farlo in una terra in cui nessuno poteva morire, dato che nessuno era vivo? Questo tremante sogno da morta vivente è uno degli assi del romanzo, di questo libro memorabile in cui si dà la parola a una voce ironica, la voce del più pericoloso tra i differenti tipi di sarcasmo: la satira femminile ben fatta.

Non so chi ha detto che non c'è niente di più pericoloso che avere una donna contro. Il paese dove non si muore mai ne è una buona prova. Nel libro tutti i morti muoiono ancora di più. E la Vorpsi coglie sempre il bersaglio, come se avesse con sé un piccolo genio che la aiuta a prendere la mira con straordinaria precisione. Questo genio è ben visibile in ogni momento, nello stesso modo in cui si riesce a vedere l'autrice tanto quando parla sottilmente della storia della miseria morale dell'Albania quanto quando discute delle serpentine di ferro di una stufa nella sua scuola. La si può vedere tanto quando parla della storia del “bordello” di Tirana come unica forma di natura possibile dei giovani albanesi quanto quando ci parla del padre incarcerato da Hoxha senza alcun motivo, a meno che l'intenzione non fosse ottenere che si sposasse in seconde nozze. 

Si riesce a vedere l'autrice? Il dramma si può ricostruire fisicamente attraverso la storia di Elona-Ornela-Eva, tripla e allo stesso tempo unica eroina di una brillante favola sulla dittatura albanese. La narratrice ride di tutto, ma lo fa con disperazione, il che ci consente più facilmente di divertirci leggendo questo suo libro profondo, e allo stesso tempo di comprendere l'orrore di una vita come quella di Elona-Ornela-Eva, che si dedicava a sognare e ballare tra le morte. Non per niente suo nonno la chiamava Mata Hari, ballerina e spia. Elona-Ornela-Eva ballava tra le morte, e una di loro, per esempio, era la compagna professoressa Dhoksi, che un giorno, cercando di picchiarla, aveva lasciato che la sua mano volasse “come una danza sognata molto tempo fa”. Era forse, questa danza, la tirana?

La tirana è una danza medievale spagnola in disuso. E si direbbe che Ornela, l'autrice, in questo romanzo non smetta mai di ballarla. La tirana era una danza tranquilla, serena, ma capace di avvelenare segretamente i ricordi di chi la ballava. Oggigiorno non si balla quasi più, ma Ornela sembra conoscerla bene, e in questo libro arriva ad abbandonarsi di buon grado a una danza che se si distingue per qualcosa dalle altre è nel creare uno spazio idoneo a ricordare, con accanimento e umorismo, ciò che si è lasciato indietro: “...il paese in cui il sole brucia al punto che le foglie dei vigneti si ossidano e la ragione comincia a liquefarsi”. Così le cose, ogni capitolo di questo libro, sono una tirana.

Molti anni dopo aver raggiunto l'esilio tanto idealizzato Ornela Vorpsi venne a Barcellona, e senza conoscermi personalmente né avermi scritto, e senza che io fossi in possesso di alcuna notizia della sua splendida esistenza artistica, si presentò a casa mia come se stesse ancora fuggendo dall'Albania e viaggiasse con i personaggi dei suoi sogni. Suonò alla porta e non so perché ho sempre pensato che l'abbia fatto senza utilizzare il campanello. E io, che quel giorno avevo dormito male e mi sentivo uno straccio, mi nascosi in cucina e chiesi a Paula de Parma che verificasse chi c'era dietro alla porta e si sbarazzasse il prima possibile di quella visita imprevista. In cucina non avevo molto da fare, e finii per spazientirmi vedendo che la dolce conversazione in italiano – perché in italiano? - con la forestiera si prolungava e si prolungava, e non potevo interromperla perché avevo pregato Paula de Parma, che sicuramente lo aveva fatto in modo sufficientemente convincente, di dire che non c'ero.

Di tanto in tanto, dal mio rifugio della cucina, sentivo le parole Tirana e Albania, che cadevano dense come grandi lacrime uscite da una poesia di Luis Cernuda. E questo, devo confessare, mi lasciava piuttosto perplesso. Senza dubbio quel giorno mi ritornò lo strano interesse provato in un'altra epoca per Tirana e l'Albania. Mi ricordo, mi ricordo. Je me soviens, direbbe Perec. Ormai non c'era più quasi nessuno della mia generazione che indicasse l'Albania come esempio perfetto di una società ideale. Mi ricordo, mi ricordo. Quando la visitatrice che parlava italiano se ne andò, uscii molto lentamente dalla cucina e domandai cos'era successo, e Paula de Parma mi riassunse tutto con la stessa grazia e agilità con la quale la Vorpsi racconta gli episodi della sua vita, e concluse così: “Di sicuro è molto bella”.

“Una volta scrissero che ero bella”, lessi qualche mese più tardi in una delle prime pagine del Paese dove non si muore mai, il libro che, tradotto dall'italiano, Ornela aveva appena pubblicato in Francia e che ci aveva inviato con una dedica per me e una per Paula de Parma, “che mi ha aperto gentilmente la porta un giorno a Barcellona”. Era il primo ottobre del 2004 quando questo libro arrivò a casa, e subito dopo averlo ricevuto cominciai a leggerlo, e ne rimasi incantato. Forse un giorno, pensai, anch'io scriverò che Ornela è bella. E alcune ore più tardi terminai il suo libro e caddi in un sonno di due ore in cui rievocai ciò che avevo letto: la storia del sogno di una giovane albanese che vuole fuggire dall'incubo dell'infanzia e dell'adolescenza; la storia dell'orrore di vivere in quell'Albania; la storia di un dramma della solitudine che mi ricordò quello di Ingrid Bergman in Stromboli; la storia di una donna intelligente tormentata dall'imbecillità generale dei suoi compatrioti; la storia di una donna che era stata una bambina a cui ogni primo maggio, per la festa dei lavoratori, compravano sandali e calzini nuovi; la storia, in definitiva, di una donna che, laggiù a Tirana, mentre i suoi familiari mangiavano zuppa di fagioli, si fermava a leggere le costellazioni con gli occhi inchiodati al cielo, e quando li chiudeva vedeva l'universo infinito (alla scuola maoista le avevano detto che era infinito), e qualcosa dentro di lei si ribellava, qualcosa che la portava a intuire che tutto ciò non era possibile, che doveva finire.

Ieri ho sognato che tutto ciò aveva una fine, che finalmente riuscivo a parlare con Ornela. Mi trovavo dentro a Compagnie, una libreria di Parigi, e mi nascondevo come se fossi nella cucina di casa. Lei mi vedeva, e con un allegro sorriso alla Hepburn mi diceva di sentirsi come quel cinese di Kafka. Stavo per dirle che non sapevo di cosa mi stesse parlando quando lei si metteva a ridere: “Sono come quel cinese che alla fine ritorna a casa”.

 

Enrique Vila-Matas

© 2006 by Enrique Vila-Matas

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