Educazione letteraria: i libri di Gabriele Sabatini
In questa rubrica i nostri autori e le nostre autrici raccontano i libri che hanno contribuito a formare il loro immaginario: il protagonista di questa puntata è Gabriele Sabatini, in libreria con Numeri uno. Vent'anni di collane in otto libri.
Premessa
Lo dico subito, da bambino non leggevo. Qualche fumetto, forse, sì – Topolino, ma solo le storie coi paperi; Lupo Alberto – e anche un paio di libri game; ma delle dispese che mio padre mi comprava tutti i mesi in edicola (e che qui chiameremo La storia del mondo, perché non ricordo il titolo vero) leggevo solo le didascalie delle figure e le tavole cronologiche, quelle sì che mi piacevano. Spontaneamente, cioè al di fuori degli obblighi scolastici, lessi I ragazzi della via Pál, ma non scattò la scintilla fra me e la lettura. Anche se ricordo esattamente il momento in cui arrivai alla morte di Nemecsek per polmonite: ero a gambe incrociate sul divano a fiori nel salotto dell’appartamento in cui sono cresciuto. Scese pure una lacrimuccia.
Libro uno
In realtà di libri in casa ce n’erano tanti grazie a mia madre, lettrice onnivora. Anche qui, nel ricordo mi soccorre un’immagine: avrò avuto dodici o tredici anni; una sera risposi a una telefonata – il telefono era in camera dei miei – e dopo aver urlato “mamma, è zia” e averla sentita che prendeva la linea all’altro ricevitore, rimasi seduto a guardare la pila di libri sul tavolinetto che lei usava come comodino. Chissà perché, cominciai a leggere un grosso libro, nelle cui prime pagine una donna svestiva il mantello mostrandosi nuda. A un ragazzino dodicenne, la lettura si presentò sotto forma di lingue che si insinuano, inturgidimenti, piccole grida ritmiche. Un certo effetto deve avermelo fatto, perché da quel momento, di leggere non ho smesso più. Tendo dunque a dare ragione a chi sostiene che non esiste un non lettore, bisogna solo avere la fortuna di incontrare il libro giusto nel momento giusto. Per me almeno è stato così. il libro in questione è I pilastri della terra di Ken Follett. Che non è per me un titolo, né un consiglio di lettura, quanto piuttosto l’emblema di un crocevia.
Libro due
Le persone, evidentemente, cambiano. E quel ragazzino che non leggeva La storia del mondo, dopo il liceo decide di iscriversi proprio a Storia. Cominciamo dunque a fare i seri. L’incontro con Marc Bloch avvenne nell’aula 18 della facoltà di Lettere di Roma Tre; Apologia della storia e La società feudale li sottovalutai e li studiai su delle fotocopie, pentendomene, poi, e comprandoli in originale dopo aver fatto l’esame. Peccato dunque che i due volumi nella mia libreria non abbiano le sottolineature e le glosse dell’epoca. Ma il libro di Bloch che mi trafisse è una testimonianza personale della caduta della Francia per mano di Hitler. E mi trafisse non per la tragicità degli eventi narrati o che di lì a poco tempo sarebbero accaduti, quanto piuttosto per l’ammonimento che contiene, e che riguarda tutti quanti abbiano gli strumenti per intuire fra i primi la direzione verso cui una comunità sta andando, ma tacciono: «Siamo stati in molti a intravedere prestissimo l’abisso in cui la diplomazia di Versailles e la diplomazia della Ruhr minacciavano di precipitarci. […] Non essendo profeti, non abbiamo presagito il nazismo. Prevedevamo, però, che sotto una forma di cui ci sentivamo incapaci di delineare precisamente i contorni, la rivincita tedesca sarebbe un giorno arrivata, nutrita dai rancori di cui le nostre pazzie alimentavano il seme, e che la sua esplosione sarebbe stata terribile. [...] Sapevamo tutto questo: eppure, abbiamo lasciato fare, pigramente e vilmente. Abbiamo temuto l’antipatia della folla, i sarcasmi degli amici, l’incomprensivo disprezzo dei maestri. Non abbiamo osato essere, sulla piazza pubblica, la voce che grida per prima nel deserto». Il titolo del libro è La strana disfatta. Ed è stato credo il libro che mi ha fatto capire che lettura e cultura possono molto, ma da sole non bastano.
Libro tre
Il terzo libro (mi avevano chiesto di parlare di tre libri, sono consapevole di aver brutalmente barato) è Officina Einaudi, che contiene le lettere editoriali di Cesare Pavese dal 1940 al 1950. Basterebbe solo questo a dire quanto possa aver ispirato la scrittura di Numeri uno, e quanto fra le sue pagine si possa provare a vedere dal di dentro il mestiere editoriale; praticamente nella sua interezza, se ci si immerge fino in fondo. Nelle lettere, Pavese è a volte ironico, sagace, pungente; sembra quasi libero dal pensiero della scrittura, perciò se dovessi dare un consiglio, direi di procurarsi le raccolte complete (1924-1944 e 1945-1950), che contengono anche le lettere private, in cui, a mio parere, emergono un’intensità e una capacità di comprendere le cose (e se stesso) che non mi sembra di ritrovare neppure nel suo diario, Il mestiere di vivere. Forse perché nei diari talvolta si mente inconsapevolmente. Nelle lettere, Pavese sembra trovare quella corrispondenza tra sé, il mondo e la scrittura ricercata per tutta la vita: certe volte mi verrebbe voglia di chiedergli se ho ragione e se lui l’avesse capito.
(Immagine: Patrick Tomasso - Unsplash)