Casa d'altri: Veronica Galletta racconta L'anno in cui imparai a raccontare storie
Casa d'altri è la rubrica in cui librerie, scrittrici e scrittori raccontano un libro.
Prende il nome da una straordinaria raccolta di racconti di Silvio D'Arzo, e ci sembrava il più adatto visto che ci piace parlare di libri, non solo dei nostri.
L'ospite di questa puntata è Veronica Galletta, in libreria con Nina sull'argine.
Ho ricominciato a leggere libri per ragazzi da qualche anno, seguendo le orme di mio figlio che cresce, cercando di anticiparne i passi per proporgli nuove letture. È stato uno splendido ritrovare. Sono stata una bambina lettrice onnivora e furiosa, specialmente di libri di avventura, i cui i ragazzi sono i protagonisti. Del resto, il mio romanzo preferito, pur dopo tanti anni e tante letture, resta L’isola del Tesoro. E non è un caso allora che proprio L’isola del Tesoro sia presente, e citato diverse volte all’interno de L’anno in cui imparai a raccontare storie: il libro delle avventure di Jim e di Long John Silver è proprio quello che la protagonista, Annabelle, porta al suo amico Toby nel nascondiglio dove si ritrova costretto dal precipitare degli eventi. (Quanti libri ci sono con dentro L’isola del Tesoro? Un giorno mi deciderò a farne un censimento. L’ultimo che ho scoperto è Timothy Top di Gud, una graphic novel edita da Tunuè).
Ma andiamo con ordine.
L’anno in cui imparai a raccontare storie, di Lauren Wolk, edito per Salani nel 2018 (nella traduzione di Alessandro Peroni), è la storia di Annabelle, raccontata in prima persona da lei stessa, che subito dichiara fin dall’incipit di cosa si parla: di quel momento preciso fra l’infanzia e la primissima adolescenza in cui diventiamo grandi, e del passaggio che ci permette di fare questo salto: le bugie, le omissioni, gli infingimenti. È attraverso la bugia infatti che smettiamo di essere tutt’uno con la nostra famiglia d’origine, e ci muoviamo nel mondo. “L’anno in cui compii dodici anni, imparai a mentire. E non mi riferisco alle piccole frottole che raccontano i bambini. Intendo proprio vere bugie, alimentate da vere paure – cose che dissi e feci che mi strapparono alla vita che avevo conosciuto fino a quel momento scaraventandomi in una nuova esistenza.”
La storia procede per movimenti in avanti, che anticipano “Se quel giorno le nostre strade non si fossero incrociate, ci saremmo risparmiati un bel po’ di guai”, ma questo modo non toglie nulla al racconto, anzi, lo rende epico.
La storia di Annabelle, dicevo quindi, e di come, in un brevissimo lasso di tempo, qualche settimana appena, la vita sua e del suo paese cambi completamente. La storia di una bambina, nel momento in cui diventa ragazzina, ma la storia di un tempo e di un luogo, anche. Siamo negli Stati Uniti, e l’anno è il 1943. La seconda guerra mondiale è ancora in corso, e anche all’interno della piccola comunità di cui seguiamo le vicende l’influsso si sente in maniera speciale. Attraverso Toby, “con la sua lunga cerata nera e i suoi neri stivali, i suoi lunghi capelli neri e la barba, e i tre lunghi fucili sempre a tracolla sulla schiena”, un uomo che vive ai margini, in un vecchio affumicatoio, e che la famiglia di Annabelle veste e nutre. È un reduce della Prima Guerra Mondiale della quale porta le cicatrici addosso. Attraverso il signor Ansel, un uomo di origine tedesca, che si trova al centro dell’incidente scatenante della storia: il ferimento di Ruth, migliore amica di Annabelle. Il signor Ansel, che vive da molti anni nel paese, a cui hanno spaccato le finestre, e messo ratti dentro la cassetta della posta, passa con un carro carico di mele, che dopo l’incidente “presero a rotolare per la strada formando una lunga striscia ininterrotta dietro al carro che proseguì fino alla prima curva”. Come non pensare alle mele di Jim e del suo barile? Sarà anche questa una citazione, un riferimento, a L’isola del Tesoro? Del resto il romanzo riverbera di riferimenti alla letteratura alta (e altra) a partire dai nomi dei due fratelli di Annabelle, Henry e James, di 7 e 9 anni, che stanno sempre insieme, e insieme quindi compongono Henry James. Attraverso Toby e il signor Ansel, quindi, la grande storia, quella con la esse maiuscola, entra nella piccola storia.
Il romanzo ruota attorno al rapporto speciale fra Annabelle e Toby, per il quale la bambina decide di mentire, nell’affacciarsi al mondo di cui accennavo all’inizio, e che è descritto con precisione in un passaggio, quando Annabelle decide di andare a cercare Toby, e si chiude la porta di casa alle spalle: “… uscii nell’aria umida e chiusi piano la porta dietro di me. Chiunque sia mai passato da un ambiente caldo e luminoso a uno freddo e buio sa che cosa provai. Ogni sicurezza era alle mie spalle. Davanti a me, una notte meno nera di come sembrava dalle finestre, ma scura quanto bastava.”
Eppure non è Toby l’uomo nero, il cuore nero della storia, ma Betty. Una bambina che indossa “un vestito di percalle, una maglia azzurra intonata al colore dei suoi occhi e scarpe di pelle nere… i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo.” Betty irrompe nella vita di Annabelle secondo il più classico degli sviluppi: arriva al paese da un giorno all’altro, ed è “la ragazza dal cuore malvagio che arrivò sulle nostre colline, cambiando tutto”, che mostra la sua ferocia fin dal primo incontro con Annabelle, a Wolf Hollow. Betty minaccia, bastona, strozza una quaglia, tende trappole affilate, minaccia ancora, mente, trama, mente di nuovo, fino alla fine, con una coerenza anche ammirevole.
La storia di Annabelle quindi, la storia di un periodo storico, anche, ma anche la storia di un luogo. E non è un caso che il titolo originale del romanzo sia proprio Wolf Hollow, la Conca del Lupo. “Un tempo in quella conca scavavano fosse profonde per catturare i lupi”, spiega il nonno ad Annabelle. Una conca, una buca, uno scavo, quel luogo non luogo che mostra e nasconde, dove tutto è possibile, e dove le due protagoniste infatti si affrontano, a viso aperto o di nascosto. Una storia che corre per i luoghi, fra la casa di Annabelle, l’affumicatoio dove vive Toby, la scuola, la casa di Betty e quella di Ruth, su e giù per le campagne, senza sosta. E la campagna è un vero personaggio, testimone degli eventi, nominata con precisione: baccelli di asclepiade e fiori di dulcamara, aster selvatici, l’edera velenosa, la balsamina, le lappole. E poi gli animali: serpenti, lupi, poiane, galli cedroni, cervi, istrici. La campagna e tutto ciò che la abita, quindi, trattata con una lingua accurata e poetica: “la campagna che avvolgeva la collina bassa allunga simile a un ruvido scialle”.
È quindi la lingua l’ultima grande protagonista de L’anno in cui imparai a raccontare storie. Annabelle impara il mondo e, e con lui nuove parole e modi di dire, a partire da incorreggibile riferito a Betty, fino a buttare il bambino con l’acqua sporca, e i modi di dire, che la fanno interrogare, che non capisce a fondo, portano la narrazione a quello stupore bambino che è il motore della storia. Una lingua che riesce a essere alta rimanendo sempre dritta: “avrebbe voluto stare lì per sempre, morire di fame lì, che la sua cassa toracica diventasse un nido per gli uccelli e le ossa cadessero a una a una come rami secchi, per forza di gravità”, e mostra come si possa scrivere per ragazzi senza mai perdere lo stile.
Un libro crudele e feroce, che non ha paura di mettere in scena incidenti, mutilazioni, morti, uno stato che si fa correlativo oggettivo di quanto accade al di là del mare, in quella guerra che “aveva trascinato il mondo intero in una violenta rissa”, che sembra lontana, ma lontana, alla fin fine, non è.