Casa d'altri: Gianluca Didino racconta Il dono oscuro di John Hull
Casa d'altri è la rubrica in cui librai e scrittori raccontano un libro.
Prende il nome da una straordinaria raccolta di racconti di Silvio D'Arzo, e ci sembrava il più adatto visto che ci piace parlare di libri, non solo dei nostri.
Gianluca Didino, in libreria con Essere senza casa, ci racconta Il dono oscuro di John Hull.
di Gianluca Didino
Cosa si prova a vedere il mondo attraverso gli occhi di un cieco? La domanda sembra paradossale (gli occhi di un cieco non vedono) ma non lo è perché, come scrive John Hull ne Il dono oscuro (Adelphi, 2019, traduzione di Francesco Pacifico), un cieco “vede” con tutto il corpo, il senso della vista in lui non è limitato agli occhi.
L’argomento del libro di Hull, un professore di teologia rimasto cieco a causa di una malattia degenerativa, mi ha sempre interessato dal punto di vista filosofico. In un mondo tanto dipendente dalla vista come il nostro (un mondo narcisista, ossessionato dall’immagine, ma anche un mondo in cui la chiarezza abbagliante della ragione ha sostituito il mistero della religione) definire la cecità un “dono” sembra blasfemo. Eppure non è sempre stato così.
Penso ad esempio all’antichità greca, in cui gli indovini erano ciechi: privati dello sguardo verso l’esterno, essi potevano scrutare lo “specchio oscuro” del presente (l’espressione è di Philip K. Dick) e predire il futuro. Edipo, una volta commesso il suo atroce parricidio, si cava gli occhi per non vedere le conseguenze delle proprie azioni. Lì, nel regno dell’oscurità, comincia il percorso del proprio pentimento. Escludere almeno temporaneamente l’accesso al mondo esteriore è una maniera, forse l’unica, di conoscere il proprio mondo interiore.
Qui, nel buio, si scopre qualcosa di sé di cui non si era a conoscenza: nel racconto La Gioconda del crepuscolo a mezzogiorno, Ballard racconta di un uomo che, reso temporaneamente cieco da un’operazione agli occhi, si affeziona così tanto al proprio universo interiore da non riuscire più a uscirne. Naturalmente questa è anche la ragione per cui la meditazione si fa a occhi chiusi: il mondo dell’oscurità racconta una storia più intima di quello della luce. Il libro di Hull è un memoir molto bello della cecità, un diario della lotta per convivere con un destino difficile e comprenderne se non il significato quantomeno la condizione in profondità.
Hull, che è morto nel 2015 (il libro è la cronaca dei primi tempi di cecità negli anni Ottanta), era un uomo religioso, e in quanto tale non smette di interrogarsi sul significato e non solo sul deficit imposto dalla sua condizione. Rispetto all’antichità greca, alle tradizioni orientali o al surrealismo ballardiano oggi siamo meno portati a vedere nell’assenza della vista, permanente o temporanea, qualcosa di diverso da un limite o una disabilità. D’altra parte la nostra cultura è tanto dominata dall’immagine (pensiamo, per fare un esempio vicino a tutti, all’estetizzazione del quotidiano che operiamo attraverso Instagram) da farci pensare al suo opposto in termini assolutamente negativi. Viviamo l’oscurità come un baratro, un abisso. Questa perdita di contatto con il regno delle ombre è pericolosa.
Nel nostro mondo illuminato 24 ore al giorno, in cui lo spazio del buio viene eroso sempre più aggressivamente dalla macchina capitalista, l’oscurità, quando infine la incontriamo, è totale e irreversibile. Non c’è dialogo con l’oscurità, non c’è integrazione. Più forte è la luce che risplende su un oggetto, più scura è la sua ombra e più netto è lo stacco. Come conseguenza, i mostri che vivono nell’oscurità proliferano non visti fino a quando diventano incontrollabili. Hull ha la rara capacità di farci immedesimare nel suo mondo buio.
È un’immedesimazione spesso dolorosa, a volte persino asfissiante, come quando ci racconta della depressione che lo coglie nel non riuscire a riconoscere il figlio che gli si è seduto sulle ginocchia. Ma è anche un’immedesimazione catartica, che ci cala in una realtà dove l’immagine non ha più senso e dove il tempo rallenta. Il mondo che ci è familiare ci appare da una prospettiva inedita.
Non è necessario credere in un dio trascendente per poter pensare all’oscurità come a un dono, ma il percorso spirituale di Hull emerge nel libro e ne accompagna le riflessioni aggiungendo una dimensione importante alla sua ricerca. In questo mi ha ricordato i saggi di Marilynne Robinson, un’altra scrittrice religiosa la cui prosa è profondamente intrisa di spiritualità anche quando scrive di argomenti che non hanno nulla a che vedere con la religione. Hull come Robinson (o come, in Italia, Chandra Livia Candiani) è autore di una prosa meditativa. Le sue parole hanno un ritmo più lento, più profondo di quello a cui siamo abituati normalmente. Sono parole che vengono dall’oscurità, che non si muovono al ritmo frenetico della luce. I due mondi, d’altronde, parlano lingue diverse.
Fate un esperimento: scrivete una pagina, senza fermarvi, con gli occhi aperti, e poi una pagina sempre senza fermarvi con gli occhi chiusi. Le vostre parole sono le stesse? Le immagini che evocate si somigliano? Chi è l’autore di quei due testi? È sempre lo stesso o sono due persone diverse? Se sono due persone diverse, chi è l’Altro che non siete voi?
(Foto: Claudio Testa - Unsplash)