Casa d'altri: Carola Susani racconta "L'Iguana" di Anna Maria Ortese
Casa d'altri è la rubrica in cui librai e scrittori raccontano un libro.
Prende il nome da una straordinaria raccolta di racconti di Silvio D'Arzo, e ci sembrava il più adatto visto che ci piace parlare di libri, non solo dei nostri.
Il 5 marzo Carola Susani torna in libreria con Terrapiena. Oggi ci fa scoprire un romanzo che ha amato molto: pubblichiamo il suo intervento tratto da L'iguana che visse due volte. Omaggio ad Anna Maria Ortese pubblicato da Elliot nel 2014.
Appunti di lettura di un libro senza fondo
di Carola Susani
Forse L’Iguana di Anna Maria Ortese è il libro che ho riletto più volte. Perché è un libro molto bello, certo (ma non tutti i libri molto belli mi chiedono tante riletture); e anche perché è un libro segreto e petulante, che mi tiene nascosto qualcosa di essenziale eppure non smette di parlarmi.
Anna Maria Ortese l’ha pubblicato la prima volta l’anno in cui sono nata, il 1965; più lo leggo più mi pare un libro che antevede, un libro profetico e un libro che fa il punto, il perfetto libro da comodino di chi va ragionando oggi di postumano (Il postumano si chiama un libro di Rosi Braidotti edito da Derive e approdi). Eppure è molto più di questo. Parla di modernità (intendendo precisamente quell’età inconclusa che inizia con il 1492, anno della conquista dell’America e della cacciata degli ebrei di Spagna), di colonialismo (colonialismo storico e colonialismo dell’anima), di condizione umana, di ingiustizia, di oppressione, di cura, della condizione del vivente.
Amo questo libro? Ne amo il sapore, il gioco sensatissimo con l’esotismo, il gioco smaccato e serissimo con le atmosfere invecchiate ad arte, lo struggimento autentico e tuttavia sempre indecente. M’incanta. E qui devo ridere, perché l’incantamento in questo libro fa tutt’uno con l’irrisione dell’incantamento. Anche se fra irrisione e incanto non vince mai l’irrisione.
Il motivo per cui non posso fare a meno di rileggere L’Iguana, insomma, è il fatto che è un’opera-ragionamento, un racconto filosofico, un rebus assai complesso e senza soluzione che tuttavia emoziona intimamente, addolora, intenerisce, lascia senza forze. Così sono i libri di cui non riesco a fare a meno.
A marzo per i Piccoli maestri ho raccontato L’Iguana all’Aquila a una sessantina di bambini di quinta elementare. Avevo cercato in tutti i modi di declinare l’invito, di cambiare libro, L’Iguana non mi sembrava un libro adatto ai ragazzini di dieci anni, ma le maestre non so perché mi avevano pregato, mi avevano garantito che i bambini, questi particolari bambini, erano speciali, capziosi, intellettuali, più maturi della loro età. Avevo accettato perché odio essere scortese, ma sentivo che c’era qualcosa di sbagliato. Nel leggere L’Iguana ai bambini e nel fatto che questi bambini fossero così speciali.
Comunque ho raccontato L’Iguana. Ho raccontato pochissimo, il più dell’Iguana è rimasto inenarrabile. E cosa ho isolato? Cosa ho raccontato? Ho raccontato una storia d’amore.
Ai tempi del boom economico, Daddo, figlio di una famiglia nobile, bello, buono, perché la sua famiglia di ingiustizie ne aveva commesse ma lui sembrava non essersene accorto o almeno non se ne rimembrava, va per mare cercando un posto ancora incontaminato per trasformarlo in un luogo di villeggiatura per milanesi. Invece incontra l’isola di Ocaña. Per Daddo Ocaña ha tutto il fascino esotico che va cercando. In realtà l’isola è il luogo dove la contaminazione s’è compiuta al massimo grado, e poiché l’isola è rimasta lontana dallo sviluppo del resto del mondo, la contaminazione è là, perfettamente visibile nei suoi terribili esiti di corruzione. Che è successo sull’isola? Sull’isola vive don Ilario, nobiluomo povero e letterato con i fratelli, omoni burberi e inselvatichiti. I tre hanno per servetta un’Iguanuccia, tristissima, venale, maliziosa, cupa. Iguanuccia è una creaturella abbrutita, incattivita. Non è sempre stata così. C’è diventata. Don Ilario se n’era innamorato.
Quando l’ho detto, i bambini e le bambine hanno sollevato il mento, acuito lo sguardo, la faccenda ora li riguardava. Sì, innamorato. L’aveva vestita come una figlia, l’aveva riempita di gioielli come un’amata, l’aveva cullata sulle sue ginocchia, l’aveva chiamate Estrellita. Lei pensava d’essere bellissima. Lui le aveva promesso di portarla in Paradiso. Nella famiglia di don Ilario avevano il vizio, ho raccontato, di mescolarsi troppo con gli animali, la madre di Ilario trattava una scimmietta, Perdita, come una figlia, e anche don Ilario ne era stato innamorato. Iguanuccia sostituiva Perdita. Com’era felice Iguana di essere amata, di specchiarsi negli occhi di Ilario.
Solo che un giorno gli occhi di lui si erano fatti opachi, Ilario si era svegliato dall’incantamento, aveva avuto paura dell’indecenza del suo amore, aveva cacciato Iguana indietro. Iguana si era guardata allo specchio e si era detta, che sì, lei non era una stella, lei era un mostro. Iguana non poteva tornare ad essere solo un rettile, lo sguardo umano su di lei l’aveva trasformata. Mai sarebbe potuta tornare a esser solo natura, poiché era stata guardata. Ecco com’era diventata la servetta, sedotta dal Paradiso e cacciata nell’inferno, attaccata a ogni briciola cadesse dal desco di Ilario, a ogni soldino fatto di conchiglie, umiliata.
Daddo appena la vede, lui pure s’innamora di Iguana. Ma di cosa s’innamora? Dello struggimento, della ferita, dell’oppressione che rivela lo sguardo abbrutito di Iguanuccia. Del suo appello? Daddo vuole salvarla. È della pietà che lei gli ispira che Daddo s’innamora? È del ruolo di salvatore che lei gli regala? Perché Daddo è buono, ma la bontà non è per niente semplice.
I bambini e le bambine mi hanno detto che c’è davvero gente che scambia gli animali per figli e innamorati. Mi hanno fatto un sacco di esempi, di descrizioni elaborate di vestiti per cani, di trine, di giubbotti e pelliccette. Hanno intuito che l’amore ha una faccia ispida e dei denti laceranti, anche quando sembra innocente. C’è una violenza nello sguardo, quando chi guarda è il solo ad avere anche il potere di parola. (l’altro pure ha uno sguardo ma è struggente perché silente). Una violenza che non ha smesso di essere in atto. Anna Maria Ortese non ha paura di perpetrarla, se ne fa carico, ci gioca: Iguanuccia è un rettile, ma è anche più semplicemente un’oppressa. C’è una identità dell’oppresso prima dello sguardo parlante dell’oppressore? Chi può dirlo?
La violenza che Anna Maria Ortese non teme di compiere è in questo: racconta l’oppresso umano come identico alla bestia, identico in quanto guardato (con uno sguardo che lo forma) e perciò sedotto, trasformato dalla sguardo. Se c’è stato un prima (un’identità non corrotta dallo sguardo che forma), ormai è perduto. In questo, ogni oppresso è identico a ogni altro. Non sono d’accordo con lei, ma quel che dice mi provoca.
Non per caso Anna Maria Ortese sceglie una lingua che ha un debito così forte con il racconto filosofico e in particolare con le Operette morali leopardiane. Contende con Leopardi. La Natura ha smesso da tempo di essere indifferente. La Natura è ferita (l’abbiamo ferita, l’abbiamo colpita, l’abbiamo guardata, l’abbiamo formata) e ora ha bisogno di noi. Ci chiama. Ci rimane solo la cura, l’unico rapporto possibile, lo sguardo d’amore l’ha ammalata e ora senza di noi non può più vivere.
Nel finale onirico, sembra che l’unica speranza di salvezza che ha Daddo (salvezza come riscatto narrativo della sua dignità) sia sacrificarsi per salvare la servetta. Dare la propria vita in cambio della sua come unica possibilità di mantenersi, a dispetto della propria condizione, buono. Più di questo, non può fare. Ma vale?
(Immagine: Sharon McCutcheon - Unsplash)